Il Magistero di Pietro

«Cristo ci ha rigenerati, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,3-4). Il magistero dell’apostolo Pietro subito dopo la risurrezione di Gesù ed in forza del mandato da Lui ricevuto, si esprime nella presidenza della Chiesa e nella predicazione. Di essa si ha abbondante notizia negli Atti degli Apostoli. La tradizione scritturistica ha conservato due lettere a lui attribuite, scritte in un greco armonioso e rivolte ai cristiani per sostenerli nel cammino della fede. La prima fu scritta da Roma ai cristiani della diaspora, con una ampia ricchezza dottrinale. Proprio agli inizi sono indicate le componenti essenziali della nuova vita, prerogativa dei cristiani, che dipendono dalla risurrezione di Cristo. Essa ha origine dalla benevolenza di Dio, si proietta in una speranza escatologica ed esprime il dinamismo della salvezza che supera una certa frustrazione del presente. Gesù Cristo ha riservato una eredità incorruttibile, senza macchia, che non appassisce e che guarda alla nuova terra, cioè al pieno possesso dei beni messianici. Tutto questo fa riferimento non a qualcosa di transitorio e di frammentario, ma ad una situazione definitiva e stabile. La speranza viva si allaccia a Dio ed alla sua trascendenza, i cieli nuovi: per questo è garantita e sicura. È interessante notare come la sorprendente ricchezza di questi alti contenuti di teologia e di vita siano indirizzati, ieri come oggi, ai cristiani e come dalla loro comprensione dipenda il retto andamento della vita vissuta sulla terra e proiettata verso il cielo. P. Angelo Sardone

«Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore» (Sir 27,6).

Temi diversi, senza ordine e volte anche con ripetizioni, sono affrontati con quadri raggruppanti e in modo non organico nel libro del Siracide, un testo deuterocanonico del Vecchio Testamento. Il libro fu definito da S. Cipriano “Ecclesiastico” perché era di uso ufficiale nella Chiesa. In esso, in particolare, la sapienza viene identificata con la legge proclamata da Mosè. A questo libro fa riferimento spesso la Lettera di Giacomo. Un passaggio interessante di autentica sapienza è senz’altro una sentenza antica quanto nuova alla quale farà riferimento anche Gesù: il frutto manifesta con chiarezza la bontà di un albero, la sua coltivazione, la cura ad esso praticata. In maniera analoga la parola rivela i pensieri del cuore: tra una parola pronunziata e l’origine del pensiero, la mente, si trova il cuore. Dalle radici dell’essere si spande la linfa ed il frutto prende consistenza. Se le radici sono buone, se è altrettanto valida la linfa, il frutto non può che essere buono. Tutto dipende da come l’albero è coltivato, dalla cura giornaliera che si pone, lasciando che la stagione e la natura faccia il suo corso. La parola sta al cuore, come il frutto sta all’albero: l’uguaglianza di questi due rapporti trova nella vita spirituale una sponda vigorosa. Se si pratica bene la vita di fede, irrorata dalla grazia dei sacramenti, coordinata da parole che si traggono dalla Parola di vita e ne sono frutto, i risultati saranno positivi e rigogliosa la raccolta. Le false apparenze, facili da mostrare attraverso tutti i canali della notorietà, sono scalzate dalla verità e dalla fecondità del frutto. Nel setaccio della coscienza rimarranno i rifiuti destinati allo scarto ed al fuoco. P. Angelo Sardone

«Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5,20).

Le esortazioni pratiche e le indicazioni di vita cristiana enunziate nella conclusione della lettera di Giacomo sono un compendio essenziale ed una sintesi mirabile dei modi con i quali ha senso ed effetto il Vangelo di Cristo nell’esistenza del cristiano. Le applicazioni concrete hanno come cardine la preghiera in tutti i tempi ed in tutte le situazioni, in riferimento agli ammalati, ai peccatori, agli erranti. L’ammissione e la confessione reciproca delle proprie colpe sostenuta dalla preghiera, attira il perdono ed ottiene la guarigione dalla malattia. Alla comunità dei credenti è affidato il compito delicato di ricondurre alla retta via chi è sviato dalla verità del Vangelo. Ogni atteggiamento deve essere costruttivo e tendere al recupero del peccatore. La prima responsabilità è di chi all’interno della comunità ha ruoli direttivi, i presbiteri che sono chiamati a pregare ed ungere i malati, a condurre i fuorviati alla pratica della fede nella verità. Il loro primo compito, ieri come oggi, è proprio quello di far da sentinella e richiamare con tatto, prudenza ed anche con fermezza i colpevoli dalla via dell’errore da loro intrapresa. Questo interesse ed impegno è gradito a Dio ed ha come riscontro la salvezza della vita propria e quella altrui nel giorno della venuta del Signore. Dio ricompensa questo ritorno con la copertura di una moltitudine di peccati. È una grande prospettiva ed altrettanta responsabilità da parte di tutti! P. Angelo Sardone

La pazienza beata

«Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5,20). Le esortazioni pratiche e le indicazioni di vita cristiana enunziate nella conclusione della lettera di Giacomo sono davvero un compendio essenziale ed una sintesi mirabile dei modi con i quali ha senso ed effetto il Vangelo di Cristo versato nell’esistenza del cristiano. Le applicazioni concrete hanno come cardine la preghiera in tutti i tempi ed in tutte le situazioni, in riferimento agli ammalati, ai peccatori, agli erranti. L’ammissione e la confessione reciproca delle proprie colpe sostenuta dalla preghiera provoca il perdono ed ottiene la guarigione dalla malattia. Alla comunità dei credenti è affidato il compito delicato di ricondurre chi è sviato dalla verità del Vangelo alla retta via. Ogni atteggiamento deve essere costruttivo e tendere al recupero del peccatore. La prima responsabilità è di chi ha all’interno della comunità ruoli direttivi, i presbiteri che, come sono chiamati a pregare ed ungere i malati, devono richiamare i fuorviati alla pratica della fede della verità. Il loro primo compito, ieri come oggi, è proprio quello di far da sentinella e richiamare con tatto, prudenza e, se richiesto, anche fermezza, i colpevoli dalla via dell’errore da loro intrapresa. Questo interesse ed impegno interpersonale è gradito a Dio ed ha come riscontro la salvezza della vita propria ed altrui nel giorno della venuta del Signore. Il ritorno a Dio sarà anche compensato dalla copertura di una moltitudine di peccati. Grande prospettiva e grande responsabilità da parte di tutti! P. Angelo Sardone

Ricchezza contaminata dalla ruggine

«Voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce» (Gc 5,1). Anche in conclusione della sua lettera Giacomo non tradisce il suo intento pratico di insegnare, esortare e mettere in guardia da comportamenti che non si addicono allo stato di vita cristiana. Già il profeta Davide ne aveva parlato: «Confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza» (Sal 49,7). La società di allora come quella di oggi e di sempre, era formata anche dai ricchi. Proprio a loro, senza mezzi termini Giacomo rivolge una secca e vigorosa esortazione evidenziando il senso peggiorativo della loro identità e dei loro comportamenti. Dinanzi ai loro occhi prospetta la conclusione della vita con l’ultimo giorno, il giorno del Signore dinanzi al quale la loro posizione è negativa. La loro ricchezza, identificata nell’oro e nell’argento, è contaminata dalla ruggine, è destinata a divorare anche le carni e non giungerà fino a quel momento. Tutte le ricchezze accumulate anche a discapito del salario dei lavoratori le cui proteste di maltrattamento economico gridano verso Dio ed esigono giustizia. Queste espressioni sono di sorprendente attualità e si inquadrano nella vita e nella società di ogni tempo. Gli insegnamenti che vengono invece dalla prima comunità di Gerusalemme sono molto chiari ed esemplari: la comunione di beni tra i ricchi ed i poveri si risolve nella condivisione e nella corresponsabilità. Un monito interessante vale anche per oggi: «alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (Sal 62,11). P. Angelo Sardone

Come Dio vuole

«Non sapete quale sarà domani la vostra vita!» (Gc 4,13). È davvero impressionante il senso di praticità riportato nella Lettera di Giacomo. Gli alti concetti teologici si integrano nella vita di ogni giorno e nelle abituali azioni da parte dei credenti, legate alla dinamica esistenziale. Il caso del trasferimento in una città, del tempo da trascorrere in essa, degli affari e guadagni da realizzare, si scontra con l’incertezza della durata della vita e della sua imprevedibilità. In questa ipotesi il paragone di confronto è il vapore acqueo che appare in un istante e poi scompare! La logica cristiana di fiducia ed abbandono alla volontà di Dio esige invece che si dica «Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello». Il resto è iniqua arroganza. La dinamica della vita, soprattutto oggi, è dominata dalla programmazione, come se tutto dipendesse dall’uomo in termini di durata e di realizzazione di progetti, senza tener conto della assoluta precarietà e del fatto che la vita è nelle mani di Dio. E ciò vale ancor di più per coloro che vivono come se Dio non ci fosse, con una arrogante convinzione di avere tutto sotto controllo, di conoscere ciò che è giusto o meno e di non tenerne conto. Il “peccato di omissione” si applica a chi vive la sua vita, fa e sfa, come se tutto dipendesse da lui e non si rende conto che invece tutto è nelle mani di Dio. Vanno considerati il volere di Dio e la sua Provvidenza senza limiti quando tutto ciò che l’uomo fa, lo sottopone agli imperscrutabili voleri divini. In ogni cosa è opportuno quindi premettere «Se Dio vuole!», o come diceva una mia cara anziana amica, «Come vuole Dio!», sottomettendosi davvero alla sua divina volontà. P. Angelo Sardone

La cattedra di S. Pietro

«Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo come piace a Dio, con animo generoso» (1Pt 5,1). La cattedra di Pietro evidenzia la missione specifica conferita da Cristo al pescatore di Galilea ed ai suoi successori: insegnare, confermare, dirigere la Chiesa di Dio, come maestro e pastore. Storicamente la prima cattedra fu posta ad Antiochia di Siria, successivamente a Roma dove si compì la missione attraverso lo spargimento del suo sangue ed il martirio. A Pietro, Gesù ha affidato la responsabilità della guida e conduzione della Chiesa prima di tutto attraverso la sua parola. La cattedra richiama infatti l’identità del maestro che si siede, parla ed insegna ai suoi alunni. Proprio da questo nome deriva il termine “cattedrale” che è la chiesa madre del territorio ecclesiastico affidato al vescovo ed alla sua responsabilità. Da quella cattedra egli esercita il ministero di santificare, insegnare e governare. Il primo compito e dovere, derivante dagli stessi apostoli e da S. Pietro, è quello di insegnare, annunciare la Parola di Dio, diffondere il messaggio evangelico e aiutare gli uomini a camminare su un itinerario di fede perchè diventi consapevole e forte. Gli insegnamenti di Pietro riportati dalla Tradizione del nuovo Testamento sono contenuti nelle due Lettere a lui attribuite. L’insegnamento più efficace, da Lui esercitato su mandato esplicito di Gesù, rimane quello di pascere il gregge, sorvegliarlo volentieri, facendosi modello. Ed in questo, l’esempio del Papa e dei vescovi in comunione con Lui, rimane determinante ai fini del cammino ecclesiale e della salvezza. P. Angelo Sardone

La vera saggezza

«Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza» (Gc 3,13). Il principio dettato dalla natura che attraverso i frutti si valuta la bontà di un albero, si applica anche agli uomini. La verità e la genuinità delle persone, i cristiani, soprattutto quelli che sono ritenuti saggi ed intelligenti, sapienti e maestri nella fede, si valutano dalla loro condotta. Da essa infatti traspare una operosità ispirata alla mitezza ed alla sapienza. Spesso proprio nei contesti ecclesiali dove facilmente chi guida e comanda può dare prova di riconosciuta saggezza, fa acqua proprio questo elemento che si fonda su una verità di essere ed una di agire. Non sono certo le belle parole, a volte anche melliflue, che accarezzano le orecchie pudiche di tanti cristiani che amano la leggerezza e la superficialità, a convincere e determinare le altrui scelte di vita. Le parole dolci ed accattivanti, anche da parte di consacrati, condite da gesti ed atteggiamenti fuori posto, sono spesso frutto di scarsa sensibilità pastorale ed ancor più di scadente attenzione di cura reale della salvezza delle anime. A volte sono forme egoistiche di tornaconto narcisistico che alimentano il fascino estetico e lauti favoritismi. Ne è prova il fatto che attività ed insegnamenti protratti per anni non fanno approdare a nulla di stabile e continuativo, ma a semplici e passeggere emozioni sentimentali. La vera saggezza si misura dall’opera concreta che, soprattutto per un sacerdote, consiste nella ricerca del vero bene delle anime, nella loro introduzione al cammino di santificazione e nella paziente e costante loro sequela. P. Angelo Sardone

I consacrati non si toccano

«Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?» (1Sam 26). L’aspra lotta ingaggiata da Saul nei confronti di Davide, ha risvolti particolari. Innanzitutto l’amicizia con Gionata che fa da cuscinetto tra il padre re e l’amico Davide. Poi, la coscienza di essere stato predestinato dal Signore a succedere nel regno, non permette a Davide di alzare la mano vendicativa contro Saul e neppure di farla alzare. L’episodio raccontato dal cronista del primo Libro dei Re è emblematico. Saul andò in battaglia contro Davide con tremila persone. Nel corso della notte mentre egli dormiva spossato dalla fatica, Davide insieme con Abisai fecero un’incursione tra le truppe e si trovarono proprio davanti al re che dormiva profondamente con la lancia infissa a terra vicino al suo capo. Dinanzi all’affermazione entusiastica del capo del suo esercito che vedeva propizia la situazione per sbarazzarsi finalmente del furente re nemico con la stessa sua lancia, Davide lo impedì fermamente affermando con vigore che non si può e non si deve mettere mano sul consacrato del Signore perché non si rimane impuniti. L’atteggiamento e la risoluzione di Davide, in piena consonanza con le indicazioni riportate dalla Legge, ha bisogno di essere rivisitato nel mondo d’oggi, incline e facile a mettere mano con azioni e parole a volte anche dure, senza discriminazione alcuna, su tutti, consacrati compresi, a cominciare dal Papa. Non si uccide solo con la lancia ma anche col pregiudizio, con la critica sferzante, col risentimento e la disobbedienza. Anche se Dio non è vendicativo, non si rimane impuniti. P. Angelo Sardone

Maestri e testimoni

«Non siate in molti a fare da maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo: tutti infatti pecchiamo in molte cose» (Gc 3,1). Chi ha l’ufficio di fare da maestro in comunità con la parola o con lo scritto, corre sempre dei rischi. Il primo è la responsabilità, perché per la conoscenza che ha delle situazioni e delle persone e per il tipo di intervento che fa, viene facilmente giudicato. Il secondo è quello del peccato di lingua, senz’altro rilevante tra i peccati che in genere si commettono. Uno che non sbaglia nel parlare può essere ritenuto un buon cristiano. Può avere il merito di dominare se stesso se si serve della parola senza venir meno alle esigenze morali della legge di Dio, soprattutto quelle della carità. Il termine maestro, «dopo quello di padre, è il più nobile, è il più dolce nome che si possa dare ad un uomo» (Card. G. Ravasi). Non tutti possono fare da maestri, né tanto meno è semplicemente un ruolo o un ufficio a qualificare una persona come tale. «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni» diceva S. Paolo VI. Il minuscolo organo della lingua ha una capacità creativa ma anche distruttiva, può condizionare la vita di chi l’adopera e di coloro ai quali sono indirizzate le parole. Il libro dei Proverbi ammonisce: «morte e vita sono in potere della lingua» (Prov 18,21). Il potere della lingua è simile a quello del fuoco che ha vita anche da una piccola scintilla. Grande è il dovere e la responsabilità di chi è chiamato a fare da maestro nella società ed anche nella Chiesa! Ma anche da parte di chi ascolta o meno! P. Angelo Sardone