Giovedì santo 2024

Giovedì Santo 2024. Col pomeriggio del Giovedì Santo e la celebrazione della Cena del Signore, si entra nel «sacratissimo triduo del crocifisso, del sepolto e del risorto», il Triduo Pasquale che dura fino ai Vespri della Domenica di Risurrezione. In esso la Chiesa celebra i grandi misteri dell’umana redenzione. Come è tradizione in tutte le parti del mondo, nella serata di ieri o nella mattinata odierna il vescovo diocesano convoca nella Cattedrale insieme con il popolo di Dio ed i diaconi, tutti i presbiteri per la «Missa chrismatis» nel corso della quale benedice gli olii dei Catecumeni e degli Infermi e consacra l’olio del Crisma. Inoltre i sacerdoti rinnovano le promesse che caratterizzano l’impegno della loro vita, messa a totale servizio del Signore e del popolo loro affidato. In un clima profondo di preghiera e di mistica contemplazione la Liturgia eucaristica pomeridiana si caratterizza col segno della lavanda dei piedi, ad imitazione di quanto fece il Maestro nel Cenacolo di Gerusalemme, il «memoriale», cioè la «riattualizzazione» dell’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, la reposizione del SS.mo Sacramento sopra un apposito altare, per l’adorazione personale e comunitaria, in alcuni luoghi prolungata per tutta la notte, per la comunione dei fedeli nell’Azione liturgica del Venerdì Santo ed il Viatico degli infermi. Non si tratta quindi affatto del «sepolcro», ma del tributo di gloria e di luce, per l’augusto Sacramento dell’altare che unitamente al Sacerdozio, secondo una mirabile espressione di S. Annibale M. Di Francia, «ad un medesimo parto gemello di amore, là nell’ultima Cena, nacquero dall’infiammato Cuore di Gesù», quando «la carità nel suo più grande trasporto produsse il primo; la carità nel suo fervente zelo produsse il secondo. Per questo sono e saranno inseparabili l’uno dall’altro». Il giovedì santo è la festa dell’Eucaristia cui si associa il ministero del Sacerdozio ad essa deputato e finalizzato. Grazie della preghiera che vorrai elevare oggi al Sommo ed eterno sacerdote Gesù, per tutti i sacerdoti del mondo ed anche per me, indegno suo servo. P. Angelo Sardone

Lunedì santo: primo carme del “servo di Jahwé”

«Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio» (Is 42,1). Nella Settimana Santa, con la straordinaria ricchezza della Liturgia la Chiesa celebra i misteri della salvezza portati a compimento da Cristo negli ultimi giorni della sua vita, a cominciare dal suo ingresso messianico in Gerusalemme fino alla sua Passione. Un elemento importante di riflessione, contemplazione e formazione è la proclamazione dei quattro Canti o «Carmi del servo di Jahwé», riportati dal profeta Isaia tra i capitoli che vanno dal 42 al 53. Oggi, Lunedì santo, è la volta del Primo Canto. Si tratta di un poemetto di pochi versetti nel quale il Servo, figura misteriosa facilmente riconducibile a Gesù, viene presentato come un profeta che è oggetto di predestinazione divina e di una specifica missione. È Dio stesso che lo presenta con termini significativi di condivisione di amore, elezione e compiacenza. Scelto da Dio il Servo, modellato e plasmato, come agli inizi della creazione, viene ricolmato di Spirito, come i giudici e i re, per realizzare la missione di salvezza, non certo facile: portare la giustizia a tutte le nazioni. Il suo tono di voce e di vita è pacato, nonostante che la missione da compiere lo faccia entrare nella realtà del male e della violenza che c’è nel mondo. Rinunzia ad adoperare le armi del male e predilige l’amore e la mitezza non incrinandosi o spezzandosi come la canna. Offre gli occhi aperti ai ciechi, la libertà ai prigionieri, la luce a chi è nel buio. Con criteri molto diversi da quelli umani, affronta la realtà con le armi opposte a quelle adoperate dalla società: la sua apparente debolezza è più forte della forza del male. Ancora oggi, Gesù, servo di Jahwè va in cerca del bene, anche se poco, per poter portare la salvezza all’uomo di oggi. Lo può fare perché è forte, perché ha la pazienza per attendere; può confrontarsi con il male senza avere paura, perché è Dio. P. Angelo Sardone

Le fonti del Pentateuco

«Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione» (Gen 17,9). L’introduzione allo studio ed alla conoscenza della Sacra Scrittura evidenzia già al primo approccio le quattro fonti del Pentateuco, le cosiddette tradizioni: jahvista, eloista, deuteronomista e sacerdotale. Esse costituiscono l’ossatura portante dei testi sacri: si alternano, si integrano e specificano una maggiore loro comprensione. Un esempio tipico è costituito oggi dalla narrazione di una seconda alleanza di Dio con Abramo. Il privilegio di questo grande patriarca di essere stato chiamato direttamente da Dio per la missione di capostipite del suo popolo, si consolida con gli impegni che Dio stesso gli chiede volta per volta. A seguito dell’alleanza con lui stabilita e già citata dalla tradizione cosiddetta jahvista, quando Abramo ha la bellezza di 99 anni, il Signore rinnova il suo patto con lui chiedendo questa volta un segno tangibile nella carne, la circoncisione. Il nuovo racconto è parte integrante della tradizione sacerdotale. Sono sigillate le stesse promesse già fatte da Dio ma questa volta sono imposti all’uomo obblighi di carattere morale. L’elemento scelto da Dio è la circoncisione, una pratica comune a molti popoli, una sorta di iniziazione al matrimonio ed alla vita di gruppo familiare, ma che diventerà caratteristica propria del popolo d’Israele ed indicherà l’appartenenza al popolo scelto da Dio, con gli obblighi da esso derivanti. Il Signore impone le sue condizioni e chiede al Patriarca di osservarle non solo lui ma anche tutta la sua discendenza, per sempre. La fedeltà a questo impegno caratterizza tuttora la vita e la fede degli Ebrei osservanti. P. Angelo Sardone

San Giuseppe, uomo del silenzio, del discernimento, della paternità

«Io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno» (2Sam 7,12). L’annuale solennità di S. Giuseppe ripropone nella liturgia la celebre profezia rivolta da Natan a Davide che voleva edificare a Jahwè una casa perché vi abitasse. Nella prospettiva biblica e teologica la Casa l’avrebbe costruita Dio stesso in Gesù Cristo, tramite la paternità giuridica e civile di Giuseppe, discendente di Davide. È lui, infatti, l’anello di congiunzione tra il Figlio di Dio, re messianico, e la stirpe davidica. Giuseppe, il cui nome significa «aggiunto», era nativo di Betlemme. Nella storia provvidenziale di Dio fu chiamato ad essere custode di Cristo come suo padre putativo e protettore della verginità di Maria, sua sposa. Il vangelo e gli scritti sacri, al contrario degli apocrifi che tracciano particolari suggestivi, non riportano alcuna sua parola, ma l’indicazione chiara di «uomo giusto»: tace, pensa nel segreto del suo cuore, prende in moglie Maria se pure gravida, salvandola dalla sicura lapidazione, e si attiene alla volontà di Dio nei confronti del Bimbo cui darà il nome Gesù. Obbedienza, silenzio, pudore, sono gli elementi che contraddistinguono l’identità di questo grande santo che il beato Pio IX il 1870 dichiarò «Custode della Chiesa universale». «La sua missione è la nostra: custodire Cristo e farlo crescere in noi e intorno a noi» (S. Paolo VI). S. Giuseppe ha un legame carismatico con S. Annibale M. Di Francia, per essere padre della provvidenza, modello della vita interiore e protettore dell’Opera rogazionista. Le nostre Case religiose sono sotto il suo patrocinio. Le vocazioni sono sotto la sua tutela e frutto della sua mediazione orante. Auguri ai papà per la loro festa odierna ed a tutti coloro, uomini e donne che portano il nome di Giuseppe, Giuseppina e derivati, perché lo imitino nel ruolo di custode della famiglia e nella prudente e giusta tutela delle persone e delle cose più sacre. P. Angelo Sardone

I vecchioni smascherati da Daniele

«Uomo invecchiato nel male! Ecco, i tuoi peccati commessi in passato vengono alla luce. La bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore!» (Dn 13,52.56-57). Il libro del profeta Daniele, nel penultimo suo capitolo narra la storia di una donna di rara bellezza, tale Susanna, moglie di Ioakim, a Babilonia nel tempo della deportazione. La comunità ebrea era retta dai giudici che, in quel tempo erano anziani e frequentavano la casa del ricco Ioakim. La bellezza della donna non passava inosservata e nonostante la loro età i due erano presi da una passione veemente che fece loro perdere il lume della ragione, desiderando di possederla e di giacere con lei. L’occasione fu loro propizia un mezzogiorno. Mentre faceva il bagno e le porte del giardino erano chiuse, essi si tirarono fuori da un cespuglio dietro il quale si erano nascosti, rendendole palese il nefasto proposito. Al categorico rifiuto di lei opposero furbescamente la trama di un’inaudita menzogna: avrebbero raccontato pubblicamente di averla vista concedersi ad un giovane che si era introdotto nel giardino. La condanna a morte per lei era così segnata dal responso inesorabile del popolo giudicante che, per un fatto del genere, non tergiversava. Ci volle la sapienza di Daniele, ispirata da Dio, per smascherarli con un giudizio spietato quanto vero e pesanti termini di condanna che non solo rendevano giustizia alla povera timorata da Dio, ma li svergognava, rivelando la tresca nella quale più volte avevano indotto tante donne di Israele con lo stesso marchingegno. Storia di ieri, storia di oggi. “Ne verbum quidem!” Non c’è bisogno di parole per spiegare e per capire! P. Angelo Sardone

V domenica di Quaresima: sintesi liturgica

Dio conclude con la Casa d’Israele e di Giuda la nuova alleanza e scrive sul cuore del popolo la legge che stabilisce il reciproco rapporto di amore col Lui. Consegue una conoscenza profonda di Dio da parte dell’uomo; il perdono dell’iniquità e l’oblìo del peccato del popolo, da parte di Dio. Alcuni Greci, pagani, vogliono vedere Gesù e chiedono la mediazione ad Andrea e Filippo (entrambi i loro nomi sono di origine greca). Segue la Sua diretta manifestazione: è Lui il chicco di grano che cade in terra, muore e porta frutto. La glorificazione che avverrà nel mistero della morte in croce nell’ora stabilita da Dio, è confermata da una voce celeste, simile ad un tuono che risuona: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». Dall’alto della croce, abbandonato completamente in Dio, Cristo attira tutto a sé: dalla sofferenza impara l’obbedienza ed è causa di salvezza per coloro che gli obbediscono. Servizio, sequela ed onore si susseguono e completano in un ritmo pasquale di preghiere e suppliche, grida e lagrime, morte e risurrezione. P. Angelo Sardone

Il giusto

«Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine» (Sap 2,17). Lo sguardo ed il fine della Liturgia nel proporre i testi della celebrazione eucaristica che accompagnano il cammino giornaliero della Quaresima è prospettico. Il punto di riferimento nella preghiera e nella riflessione è Gesù Cristo, come risalta anche dalle pagine bibliche vetero-testamentarie. In esse è tipica la simbologia che spesso fa riferimento al Figlio di Dio nella sua identità di «giusto». Il libro della Sapienza, considerato «deuterocanonico» cioè riconosciuto solo in un secondo tempo come ispirato ed utilizzato probabilmente già da S. Paolo e S. Giovanni e sicuramente dai Padri della Chiesa fin dal II secolo, mette appunto a confronto la sorte dei giusti e degli empi nel corso della vita sulla terra. Il «giusto» che possiede la conoscenza di Dio, è ritenuto d’imbarazzo perchè parla apertamente, rimprovera le trasgressioni. Le reazioni del popolo sono conseguenti: è insopportabile già al vederlo. La verità delle sue parole sarà dimostrata ampiamente alla fine della vita, quando si vedrà se è davvero assistito da Dio. Le tematiche si intercalano con termini analoghi adoperati da Isaia che saranno ancora più espliciti nei giorni prossimi. Il tutto si realizza in pienezza in Cristo e nel mistero della sua passione. La verità delle parole che si adoperano è sempre proporzionata alle opere che si compiono. Nel campo della fede non sono sufficienti se limitate solo ad espressioni verbali. La traduzione pratica, anche in mezzo alle difficoltà, sancisce la verità delle stesse parole portate fin sopra la croce della testimonianza perseverante sino alla fine. P. Angelo Sardone

La consolazione

«Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13). Toni e tematiche proprie dell’Avvento, ritornano in Quaresima con una significativa cadenza liturgica di continuità e pienezza. Il Libro della Consolazione di Isaia che si identifica coi capitoli che vanno dal 40 al 55, il cosiddetto «deuteroisaia» evidenzia la grande misericordia e la compassione che Dio opera verso l’uomo che riconosce il suo peccato e torna a Lui. Dio in un certo senso condivide la sofferenza dell’uomo e gli viene incontro col suo tratto di amore che induce alla conversione: «Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Si entra così nel mistero stesso di Dio che già nella rivelazione a Mosè si era autodefinito «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6 ss.). L’evangelista Luca rileva la predicazione di Gesù come un insegnamento continuo e profondo della misericordia di Dio. S. Paolo aggiunge che Dio è «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Co 1,3) e questo ministero si diffonde nella comunità attraverso l’opera specifica di Cristo, nello Spirito, il «consolatore» per eccellenza.
Sant’Ambrogio definiva la consolazione una vera e propria «arte» che non tutti hanno ma che tutti possono acquisire nella misura in cui incoraggiano, offrono conforto a chi è smarrito, a chi vive la solitudine, a chi è nello sconforto per le sofferenze diverse a livello fisico, psichico ed anche spirituale e sociale. L’esperienza insegna che chi ha sperimentato in prima persona la consolazione che viene da Dio ed anche quella proveniente dagli uomini, è in grado di darla e di condividerla con gli altri. E questo è un vero e proprio ministero di fatto. P. Angelo Sardone