Maestri e testimoni

«Non siate in molti a fare da maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo: tutti infatti pecchiamo in molte cose» (Gc 3,1). Chi ha l’ufficio di fare da maestro in comunità con la parola o con lo scritto, corre sempre dei rischi. Il primo è la responsabilità, perché per la conoscenza che ha delle situazioni e delle persone e per il tipo di intervento che fa, viene facilmente giudicato. Il secondo è quello del peccato di lingua, senz’altro rilevante tra i peccati che in genere si commettono. Uno che non sbaglia nel parlare può essere ritenuto un buon cristiano. Può avere il merito di dominare se stesso se si serve della parola senza venir meno alle esigenze morali della legge di Dio, soprattutto quelle della carità. Il termine maestro, «dopo quello di padre, è il più nobile, è il più dolce nome che si possa dare ad un uomo» (Card. G. Ravasi). Non tutti possono fare da maestri, né tanto meno è semplicemente un ruolo o un ufficio a qualificare una persona come tale. «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni» diceva S. Paolo VI. Il minuscolo organo della lingua ha una capacità creativa ma anche distruttiva, può condizionare la vita di chi l’adopera e di coloro ai quali sono indirizzate le parole. Il libro dei Proverbi ammonisce: «morte e vita sono in potere della lingua» (Prov 18,21). Il potere della lingua è simile a quello del fuoco che ha vita anche da una piccola scintilla. Grande è il dovere e la responsabilità di chi è chiamato a fare da maestro nella società ed anche nella Chiesa! Ma anche da parte di chi ascolta o meno! P. Angelo Sardone