Secondo Canto del Servo di Jahwé

«Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3). Il secondo Canto del Servo di Jahwé si collega e riprende il tema del primo. Si caratterizza particolarmente come esposizione della sua missione. La chiamata è situata all’origine del tempo; il nome identifica il suo ruolo di predicatore con una lingua simile ad una spada affilata e ad una freccia appuntita. Questi strumenti di morte evidenziano l’attualità e l’efficacia della sua Parola destinata non solo al popolo di Israele ma a tutte le genti, qui evocate dalle isole e dalle nazioni lontane. L’identità di servo viene affermata solennemente da Dio e fa parte integrante della sua missione salvifica: su di lui si manifesterà la gloria. Nell’accezione di S. Giovanni la gloria e l’esaltazione del Servo consistono nella crocifissione prima e poi nel trionfo della risurrezione. Questa dinamica di gloria passa anche attraverso l’insuccesso, l’inutilità della fatica ed il logorio delle forze, quasi la presa di coscienza di una fragilità umana che soccombe dinanzi alla prepotenza dei forti ed all’assurdità di una passione cruenta e di una morte infame. Il compimento di tutto sarà comunque la vittoria sul peccato e sulla morte, opera congiunta del Figlio obbediente e del Padre che con la sua onnipotenza onora grandemente il Figlio. Il passaggio dall’identità di servo a quello di luce è un connotato che S. Giovanni evidenzierà nel suo vangelo. Le prerogative messianiche di Cristo sono ben delineate nel Servo di Jahwé. Queste realtà si riflettono sul popolo credente, su ciascun cristiano, chiamato a condividere la gloria di Dio passando attraverso la passione di Cristo. P. Angelo Sardone

Primo Canto del “Servo di Jahwè”

«Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio» (Is 42,1). La settimana santa aperta dalla Domenica delle Palme, fa ripercorrere le ultime tappe della vita in terra di Gesù, nella liturgia, a partire dalla Parola di Dio. Essa esprime la grandezza del mistero incarnato nel Figlio di Dio. Il primo Canto del Servo di Jahwé presenta il protagonista delle azioni drammatiche e gloriose della passione, morte e risurrezione. Viene identificato come un profeta, oggetto della predilezione di Dio, latore di una missione salvifica e di una predestinazione divina. La prima predicazione cristiana, in maniera concorde ha riconosciuto in questo servo lo stesso Gesù Cristo, soprattutto quando Egli stesso ha applicato a sé i connotati specifici della sofferenza enunciati dal Deuteroisaia. Il servo eletto da Dio è sostenuto dallo Spirito proprio come i grandi re e profeti. Al battesimo di Gesù e nella trasfigurazione, nel corso della teofania, tornano i medesimi termini adoperati dal profeta e chiaramente applicati dalla voce del Padre al suo Figlio Gesù, l’amato. Mitezza e fermezza contraddistinguono il suo parlare ed agire. Preso per mano da Dio Egli apre gli occhi a tutti perché comprendano la grandezza dell’amore del Creatore che in Lui rivela ogni cosa. Nella sofferenza di Cristo, accolta e vissuta per amore delle creature, si trova tutta la pienezza dell’umanità, portata sull’altare della croce come offerta a Dio della fragilità e debolezza di ogni uomo, trasformate da Cristo in fortezza e stabilità. Anche per me, anche per te! P. Angelo Sardone

Domenica delle Palme

Sintesi liturgica

Domenica della Palme. Il discepolo con l’orecchio aperto da Dio e attento, senza paura proclama la parola ed offre ai persecutori il suo viso oggetto di insulti e sputi. È assistito da Dio e non rimane confuso e svergognato. Il celebre Inno cristologico dei Filippesi sintetizza in maniera superlativa l’abbassamento e l’esaltazione di Cristo-Dio umiliato sino alla morte e costituito “Signore”: dinanzi a Lui tutto si piega. Il desiderio ardente di mangiare la Pasqua coi suoi discepoli apre la narrazione della Passione di Cristo. L’evangelista Luca con dovizia storica e teologica ripercorre i passi degli ultimi giorni di Cristo e racconta il più grande e sconvolgente evento della storia di sempre: la morte dell’uomo-Dio. Nel variegato scenario, nel copione scritto col sangue e nelle parti dei personaggi diversi, ognuno ritrova se stesso con-protagonista talora incauto e responsabile del dramma che la Chiesa rivive attraverso la sontuosità e l’impagabile bellezza della liturgia. In Pietro che rinnega, in Giuda che tradisce, nel popolo prima osannante e poi inferocito che chiede la morte, in Barabba liberato, nei carnefici ed aguzzini, nelle donne piangenti, negli Apostoli paurosi, in Giovanni ai piedi della croce, in Longino inondato dall’acqua e dal sangue del costato, ciascuno riscopre e vede la sua identità ed il suo ruolo nel mistero della Passione. Osanna e crucifige: sono parametri di gloria e vergogna del mondo! Questo è l’uomo e la donna cangianti ed opportunisti, che però saranno vinti dal cruento e disarmante amore di Cristo che muore in croce. P. Angelo Sardone

Il Dio con noi

«In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37,27). L’alleanza sancita da Dio col suo popolo, a cominciare da Abramo, fu rinnovata con Mosé col dono dei comandamenti e si è compiuta e stabilita in Gesù Cristo nel mistero della sua morte e risurrezione. Nel patto proposto da Dio, la prima condizione è quella di essere Lui l’unico e vero Dio, il riferimento assoluto della vita e delle azioni del popolo, unitamente alla obbedienza della fede, che respinge ogni idolo e fa tenere lo sguardo fisso sul Creatore e Redentore. In questa veste Dio assicura la sua presenza in mezzo al popolo, è veramente l’Emmanuele, il Dio con noi. Per questo Jahwé volle porre la sua dimora sulla terra che, nel corso del tempo, si manifestò con la sua Parola, le tavole della legge poste nell’Arca dell’alleanza, la Legge promulgata da Mosé, il Tempio santo a Gerusalemme, la persona stessa di Gesù Cristo: in Lui inabita la pienezza al tempo stesso della divinità e dell’umanità. Dio dimora in mezzo al suo popolo antico e, oggi, nel mistero della Chiesa che è costituita dal popolo santo di Dio. Rivela la sua presenza nei poveri e nei sofferenti e, nella forma per eccellenza, nel mistero dell’Eucaristia che è patto di alleanza, cibo di vita, farmaco di immortalità e viatico per la vita eterna. Il patto richiede fede. È proprio nel mistero della fede che il cristiano stabilisce e realizza la sua vita sulla terra con lo sguardo sempre rivolto al cielo. P. Angelo Sardone

I poveri di Jahwè

La semina del mattino

«Lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori» (Ger 20,13). Un estratto significativo delle «confessioni» del profeta Geremia riportate nel capitolo 20 dell’omonimo libro, fa riferimento esplicito alla sua condizione di vessato dalla calunnia e denunciato dai suoi detrattori, finanche gli stessi amici. Ce l’hanno a morte con lui. La lotta è dura e lo sarà sino alla fine. Il profeta comunque non si sente solo, perché averte la presenza costante del Signore accanto, che gli garantisce la stabilità e la non prevaricazione dei nemici. La confessione diventa preghiera di lode al Signore: è consapevole di essere stato liberato dalle mani dei malfattori, sentendosi agli occhi di Dio “povero”. Il linguaggio ebraico caratterizza col termine «Anawim» i «poveri di Jahwé». La povertà implica la piccolezza, l’umiliazione, una dimensione di povertà spirituale davanti a Dio e non semplicemente assenza di cose materiali, o denaro. I poveri sono coloro che attendono la salvezza ed hanno fiducia nel Signore. Ma povero è anche chi malauguratamente incappa nelle mani dei prevaricatori, dei malfattori, dei prepotenti, dei tiranni, della gente di malaffare. Allora la povertà diviene addirittura spaventosa, perché l’individuo viene privato della sua dignità umana ed asservito al potere, alla bieca sopraffazione. Povero è infine chi è senza Dio. Le sue ricchezze anche materiali diventano fumo e si tramutano in giudizio spietato. Scampare dalle mani dei malfattori esige un coraggio grande ed una forza d’animo che solo il Signore concede a chi glielo chiede con fiducia ed umiltà. P. Angelo Sardone

Abramo e l’alleanza con Dio

««Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione» (Gen 17,9). La grande storia di Abramo, il capostipite del popolo d’Israele, si inquadra fondamentalmente in un rapporto di alleanza con Dio. Dopo quella con Noè, con la quale Dio aveva promesso di non distruggere più la terra, l’alleanza con Abramo è la manifestazione della totalità con la quale Dio vuole che la creatura si leghi a Lui: abbandono della terra per andare verso una terra sconosciuta. In cambio della sua protezione perenne e di una numerosa posterità, Dio gli promette una terra tutta sua e gli chiede il segno della circoncisione. Questo atto presente già nei popoli orientali, comincia per il popolo di Dio con Abramo, ed è prescritta proprio come segno di Alleanza. Nel contempo, secondo la concezione antica in riferimento al nome che non designa solo l’identità ma determina anche la natura di un individuo, Dio gli cambia il nome: non si chiamerà più Abram, che nel linguaggio semitico significa «mio padre è sublime» ma, con la forma allungata «Abraham». Anche se entrambi i termini sembrano essere forme dialettali dello stesso nome, il nuovo nome dato da Dio significa «padre di una moltitudine». E con questo attributo il patriarca passerà alla storia. Non dovrà essere solo lui ad osservare l’alleanza ma la stirpe ventura, le varie generazioni che da lui nasceranno. L’impegno di fedeltà a Dio non si consuma ed esaurisce in Abramo ma continua anche oggi nel nuovo popolo di Dio, la Chiesa che non l’esprime con la circoncisione, ma con la stessa persona di Gesù nella nuova ed eterna alleanza del suo sangue. P. Angelo Sardone

Dio salva sempre

La semina del mattino

«Hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio all’infuori del loro Dio» (Dn 3,95). La città diBabilonia con i re Nabucodonosor e Balthassar fu il luogo nel quale si svolsero le gesta del profeta Daniele, ivi condotto con gli Ebrei, ed in particolare degli altri tre giovani Anania, Azaria e Misaele con lui protagonisti nei primi capitoli dell’omonimo libro. Esso non rappresenta più una vera corrente profetica, la predicazione fatta ad un popolo, ma un vero e proprio racconto. Le indubbie capacità intellettive del giovane Daniele, come quelle dei suoi tre amici, lo impongono all’attenzione del re e della sua corte. Essendo però venuti meno all’ordine del re di prostrarsi ed adorare la statua d’oro che lo stesso aveva fatto fare, furono gettati nella fornace ardente per essere uccisi. Le fiamme non li toccavano affatto, anzi essi camminavano liberamente mentre il fuoco bruciava senza arrecare alcun danno ai giovani che invece lodavano Dio. Azaria proclamò un bellissimo cantico cui segue l’altrettanto noto cantico dei tre giovani che la liturgia ha adottato nella preghiera delle Lodi mattutine della domenica e nelle feste. Stupito e consapevole del miracolo avvenuto sotto i suoi stessi occhi, il re ordinò di liberarli ed anzi di gettare coloro che li avevano accusato e cominciò lui stesso a lodare e benedire Dio. I giovani, invece, liberati, furono promossi a pubbliche cariche regali. Succede sempre così. L’osservanza e la fedeltà alla legge di Dio, in qualunque epoca ed in qualunque situazione, premia e lascia trasparire la potenza di Dio che col suo angelo libera anche dal fuoco. P. Angelo Sardone