Domenica della gioia (III di Avvento)

La vocazione del Messia è delineata dal profeta Isaia in termini di consacrazione, unzione, missione liberatrice e confortante per i miseri, gli infermi, gli schiavi. Mantello, diademi e gioielli sono vistosi elementi della regalità dello sposo che proclama la giustizia e la salvezza. Rilevante è il ruolo di Giovanni Battista, testimone della luce. La sua esplicita confessione è quella di «voce nel deserto» che invita a raddrizzare i sentieri ed amministra un battesimo di penitenza con acqua al di là del Giordano nei pressi di Betania. Guarda Cristo verso il quale non si sente degno di legare i lacci dei sandali. Gioia, preghiera continua, rendimento di grazie sono espressioni della volontà di Dio, per alimentare lo spirito, astenersi dal male, accogliere le profezie, conservarsi irreprensibili per la venuta del Signore. L’attesa della venuta diviene gioia intensa. P. Angelo Sardone

Il profeta di fuoco

La semina del mattino

163. «Sorse Elìa profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola» (Sir 48,1). Uno dei profeti frequentemente citato nel nuovo Testamento anche da Gesù è Elia, nato a Tisbe, nel IX secolo a.C. Già nel suo nome, doppiamente teoforico, El (Elohim) Ja (Jahwè), porta incisa la sua identità e missione. Sconfigge e distrugge i profeti di Baal, solitario assetato di Dio e della sua presenza, contemplativo e mistico, incontra Dio nel silenzio, in cammino e da fermo, sa intuire e comprendere i suoi segni. Combatte gli idoli falsi e tenta di ricondurre il popolo alla fedeltà della sua Alleanza con Dio; ha azioni solidali con i poveri e difende la giustizia. La sua parola era piena di fuoco e intermediaria dei prodigi operati da Dio, risuscitando un morto, dando il necessario per vivere ad una vedova, perorando la pioggia dopo la siccità. Il libro sapienziale del Siracide lo chiama “profeta simile al fuoco” anche perché, dopo aver passato all’asciutto il Giordano insieme col suo discepolo Eliseo, fu rapito da un carro di fuoco sceso dal cielo e tirato da cavalli fiammeggianti. Le sue gesta erano molto note al tempo di Gesù tra la gente d’Israele. Giovanni il Battezzatore veniva indicato come colui che aveva lo spirito e le virtù di Elia, come evocato dall’angelo nell’annuncio a Zaccaria. Lo stesso Gesù attesta che Elia è ritornato incarnato nel Battista. Nella Trasfigurazione, accanto a Mosè egli rappresenta il profetismo biblico. Nei luoghi dove svolse la sua missione ispirandosi a lui è sorto l’Ordine del Carmelo. S. Giacomo nella sua lettera lo presenta «uomo come noi» (Gc 5,17) e modello di preghiera. Lo sia anche per noi in questo tempo di attesa, in preghiera ed azione. P. Angelo Sardone

L’attenzione e l’ascolto

La semina del mattino

162. «Se avessi prestato attenzione ai miei comandi, il tuo benessere sarebbe come un fiume» (Is 48, 18). Quante volte forse questa espressione l’abbiamo sentita dire dai nostri genitori o da qualcuno veramente interessato a noi! Le indicazioni ed i comandi di chi vuol bene sono criteri di cammino, anche se al momento possono sembrare duri od incomprensibili. Il popolo d’Israele è stato alla scuola di Dio non solo durante il quarantennio dell’esodo sotto la guida di Mosè, ma anche e soprattutto attraverso i profeti, nell’ascolto della Parola, nella fedeltà all’Alleanza, nell’attesa del Messia. Il Signore insegna il bene per il bene e guida sicuri sulla strada da percorrere per raggiungere la vera felicità senza essere bloccati dalle preoccupazioni del mondo e dai falsi avventori del male mascherato da bene. Le promesse di Dio sono eterne, ma continuamente sono infrante dall’infedeltà umana che preferisce far direzionare verso ciò che è più comodo, facilmente appagante, nella diabolica confusione dei valori. Il comando e la correzione lì per lì non è «causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati» (Eb 12,11). Il benessere è riservato dal Signore a chi obbedisce, si lascia guidare e presta attenzione ai suoi comandi. Talora invece l’uomo pensa che sia solo frutto del suo impegno e delle sue capacità, fuori da ogni logica morale. Un mare di grazia è riservato a chi fa attento il suo orecchio alla voce di Dio. Il suo benessere è come un fiume in piena. P. Angelo Sardone

L’acqua della vita

161. «I miseri e i poveri cercano acqua ma non c’è; io, Dio d’Israele, non li abbandonerò» (Is 41, 17). L’acqua è elemento indispensabile per vivere. Talete, un filosofo del VI sec. a.C. affermava che è il primordiale e costitutivo principio delle cose. Anche nella teologia essa ha un valore di importanza fondamentale. Nella creazione lo Spirito si librava sulle acque. Nella storia sacra l’acqua scesa dal cielo nel diluvio universale distrugge ogni cosa; il fiume Giordano costituisce il riferimento per il Battesimo, da quello amministrato da Giovanni, fino al sacramento istituito da Gesù Cristo. Il Maestro di Nazaret alla Samaritana assetata afferma di essere Lui l’acqua viva, quella che toglie la sete ed apre alla eternità. Anche la predicazione profetica di Isaia fa riferimento all’acqua, quella che cade dal cielo. Sono particolarmente i poveri, i miseri che la cercano per vivere perché la loro lingua è riarsa per la sete, ma non ne trovano. È l’acqua della giustizia, del riconoscimento dei diritti, dell’eguaglianza sociale. È l’acqua della fede, del desiderio di salvezza e spesso non si trova nei luoghi deputati dalla natura, dalla religione, dall’amministrazione della cosa pubblica. Allora interviene lo stesso Signore che fa scaturire i fiumi anche sulle brulle colline, apre fontane nelle valli, muta il deserto in lago. L’Apocalisse conferma che a chi ha sete Dio darà gratuitamente acqua della fonte della vita (Ap 21,6), perché Egli non abbandona mai. La ricerca di questa acqua non può fermarsi dinanzi alle difficoltà spesso generate anche negli ambienti ecclesiali pervasi da cose temporali. Il tabernacolo è una fonte perenne di acqua e di vita! P. Angelo Sardone

S. Nicola, santo di Oriente ed Occidente

La semina del mattino

157. «Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede» (Is 62,11).

L’iconografia e la statuaria cristiana da sempre raffigurano e presentano S. Nicola di Bari (270-343), uno dei santi più conosciuti e venerati al mondo, con il libro della Parola sormontato da tre palle. Esse rappresentano sacchetti di monete, la dote che, secondo la tradizione, quando era ancora laico avrebbe procurato a tre ragazze povere per il matrimonio, onde sottrarle alla prostituzione cui le aveva indotto il padre per procacciarsi il denaro occorrente. Il suo nome, dal greco, significa “popolo vittorioso”. Fu consacrato vescovo di Myra, eletto dai vescovi dei dintorni della città, secondo una prodigiosa visione di uno di loro, interpretata come volontà di Dio. Probabilmente prese parte al Concilio di Nicea (325) contro le tesi del prete Ario. Alla sua intercessione sono attribuiti numerosi miracoli, come la prodigiosa provvista di grano per gli abitanti di Myra durante la carestia, la liberazione di tre giovani innocenti e tanti altri ancora. Morì anziano nella città che aveva servito con la Parola e la santità di vita. Nel 1087 un gruppo di Baresi, probabilmente per rilanciare il predominio economico della città sponda del Levante, approdò a Myra e si impadronì delle spoglie di San Nicola trafugandole a Bari. Nel 1089 esse furono collocate nella cripta della Basilica omonima che fu elevata in suo onore ed a lui dedicata. Da allora è diventata mèta di pellegrinaggi con una risonanza pressoché universale ed il suo culto è un ponte di collegamento tra l’Oriente e l’Occidente. L’universale sua notorietà è la ricompensa a Lui riservata dal Signore, il premio alla sua vita evangelica e l’onore per tutti quelli che ne sono devoti. Auguri a chi ne porta il nome. P. Angelo Sardone

Credere per vedere, più che vedere per credere

155. «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!» (Mt 9,27). La cecità, fisica o spirituale, è un elemento ricorrente nella Sacra Scrittura, sia in forma concreta che figurata. La cataratta, la degenerazione maculare legata all’età e il glaucoma sono le maggiori causa della perdita della vista. La correzione tante volte viene con l’uso degli occhiali o con l’intervento chirurgico. Questa infermità visiva, molto comune nell’antico Medio Oriente, ha diversi riferimenti in personaggi biblici. Il caso più eclatante dell’Antico Testamento è Tobia. Nei Vangeli più volte si parla di ciechi, due in particolare che seguono Gesù gridandogli dietro. Quando il Maestro si ferma in una casa, gli si avvicinano e rispondono affermativamente all’interrogativo che pone loro per saggiare la loro fede: «Sì, Signore, tu puoi guarirci!». Gesù tocca i loro occhi e dà la vista. Ciò che si è realizzato è il premio alla loro fede. I due guariti, non obbedire affatto alla proibizione ingiunta loro da Gesù, ma diffondono dappertutto la notizia del miracolo. Gli occhi dello spirito spesso si appannano per gravi situazioni di ordine morale e comportamentale fino a spegnersi del tutto, generando buio spirituale e facendo brancolare a tentoni senza avere chiara alcuna meta. La fede, fatta di obbedienza e fiducia nel Signore, è un affidamento completo a Lui, è volgere lo sguardo e la vita verso di Lui. Allora cadono le cateratte, è guarita la cecità, si torna a vedere. All’antico adagio «vedere per credere», bisogna ora aggiungere, se non sostituire «credere per vedere». P. Angelo Sardone