La giustificazione di S. Paolo

«Vi ho chiamati per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena» (At 28,20). Siamo alle ultime battute del meraviglioso libro degli Atti degli Apostoli. Paolo è a Roma: vi è giunto affrontando anche tempesta e naufragio e passando per l’isola di Malta. Pur non avendo trovato in lui alcunché degno di morte, i Romani lo avevano trattenuto a Gerusalemme, in carcere, costringendolo ad appellarsi a Cesare. Essendo cittadino romano aveva questo diritto e perciò fu condotto a Roma dove gli fu concesso di vivere in una casa presa in affitto avendo un soldato a guardia. In queste condizioni rimase per due anni. Roma contava allora un milione e mezzo di abitanti e gli ebrei erano circa quarantamila. La sua preoccupazione era quella di incontrare i notabili dei Giudei che abitavano nella capitale dell’impero romano per chiarire la sua condizione di prigioniero e la sua posizione soprattutto nei confronti dei correligionari ebrei che erano bene informati di ciò che era successo in Palestina. Non aveva fatto nulla né contro il popolo né contro le usanze della Legge. Il suo compito rimaneva comunque ancora quello di accogliere coloro che andavano a trovarlo e di parlare loro con franchezza e senza impedimento di Gesù. Questo atteggiamento leale e difensivo costituisce l’ultimo tratto documentato della vita dell’Apostolo delle genti che intravvede la sua liberazione e che in seguito proprio a Roma testimonierà col sangue del martirio la sua fede in Cristo. La coerenza fino in fondo e la fedeltà alla missione ricevuta di annunziare il Regno ai pagani costituisce l’ultimo tassello che l’evangelista Luca pone alla sua grandiosa opera ecclesiale, che ha accompagnato il cammino pasquale. P. Angelo Sardone