Efficacia di una insistente preghiera

La semina del mattino

135. «Le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (Lc 8,5). La risoluzione conclusiva del giudice iniquo diviene occasione per un grande insegnamento sulla pratica, l’insistenza e l’efficacia della preghiera. Da grande Maestro, Gesù narra la parabola della vedova insistente e del giudice senza scrupoli anche davanti a Dio, che, pur di liberarsi del fastidio arrecato dalla povera donna le fa giustizia. Come la domanda ripetuta rischia di diventare ossessiva e fastidiosa per chi la riceve, la preghiera insistente presentata a Dio senza stancarsi, giorno e notte, induce il Creatore ad intervenire con giustizia in maniera pronta. Al giudice disonesto che si piega dinanzi alla richiesta della vedova, si contrappone Dio, Padre buono, generoso e giusto che non fa aspettare e concede quanto richiesto. La preghiera che fondamentalmente è un atteggiamento di vita e che si esprime oltre che con la mente ed il cuore, con la bocca, donde il termine orazione, è una necessità che si deve esprimere e presentare senza stancarsi, soprattutto quando sembra che sia inefficace. Dio non dorme e non è sordo dinanzi ad ogni nostra richiesta. I tempi ed i modi di Dio nel rispondere, sono molto diversi da nostri. Una fede matura aiuta ad affidarsi a Lui ed a gettare ogni Lui ogni preoccupazione. L’esempio viene da Cristo che pregava continuamente il Padre, anche con «forti grida e lacrime e, per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito» (Eb 5,7). La preghiera insistente bussa al cuore di Dio e lo apre per esaudire ogni richiesta! P. Angelo Sardone

Un cuore in cammino

La semina del mattino

134. «Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti» (2Gv 1,6).

Tredici versetti appena compongono la Seconda Lettera indirizzata da S. Giovanni ad una comunità dell’Asia Minore. Gesù aveva parlato del suo comandamento dell’amore e l’aveva lasciato come testamento agli Apostoli ed ai cristiani. L’evangelista, acuto teologo dell’amore, lo ripropone nel suo Vangelo e nella Prima Lettera e qui ne specifica ancora una volta la consistenza e l’essenza: «camminare secondo i comandamenti». È questa la manifestazione pratica dell’amore per Dio e per il prossimo, messa sullo stesso piano di una conoscenza autentica e vera di Dio. Diversamente si rischia di essere bugiardi e di vanificare la completezza dell’amore. Una parola ed una realtà fortemente inflazionata può mettere nelle condizioni di auto-ingannarsi se non si comprende bene il significato pregnante dell’amore che è dono ma anche impegno, che ci è elargito con generosità ma che va ricambiato, che non consiste in parole, ma in fatti e verità. Il banco di prova sono proprio i comandamenti, il decalogo dato da Jawhè a Mosè, ribadito da Cristo ed esemplificato nei due comandamenti grandi: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Ciò non significa che gli altri sono elusi, ma compresi. Chi ama Dio infatti non uccide, non ruba, non calunnia, rispetta la sacralità del suo corpo, onora i genitori, non attenta alla roba ed alla persona di altri. A volte intorno a questo si sviluppa una grande confusione, frutto di bigottismo e di una conversione non autentica e radicale. «Conosco un solo dovere, quello d’amare. A tutto il resto dico no», affermava l’ateo francese Albert Camus. L’uomo è un cuore d’amore in cammino. P. Angelo Sardone

Rapitore delle anime

La semina del mattino

133. «Prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione» (Lc 17,25). Il Regno di Dio, assicura Gesù, non giunge per attirare l’attenzione ma è già presente attraverso la sua persona, le sue opere ed i suoi giorni. È un regno spirituale. Il desiderio si accentuerà nel futuro, quando voci diverse indurranno a credere che Egli sia da una parte o dall’altra. Non bisogna seguire tali voci. L’attesa deve stimolare a coltivare la terra e prefigurare così il mondo nuovo (S. Giovanni Paolo II). Il giorno del Signore verrà con una modalità apocalittica, imprevedibile ed immediata. Ma prima è necessario che Cristo, uomo-Dio e giudice universale, soffra molto e sia rifiutato. Le persecuzioni sofferte per amore di Cristo, sono i segni inequivocabili che il Regno di Dio è presente tra gli uomini. Questa indicazione evangelica si incarna nella testimonianza cruenta di S. Giosafat (Ucraina, 1580-1623). Egli fu grande difensore delle Chiese uniate, cioè le Chiese orientali cristiane che, dopo la separazione da Roma con lo scisma d’Oriente (1054), ristabilirono la comunione con il Papa. Fu monaco basiliano, priore, abate ed arcivescovo di Polock. Le opposizioni dei dissidenti gli provocarono il martirio e la morte mentre usciva dalla chiesa dove aveva prima celebrato. Il suo insegnamento che si condensa sulla fedeltà al vicario di Cristo a Roma, è basato sul fatto che la Chiesa non è cristiana se non è cattolica, cioè universale. Molto importante è anche la stima della tradizione dei Padri. che la Chiesa non è cristiana se non è cattolica, cioè universale. Molto importante è anche la stima della tradizione dei Padri. Per il suo zelo fu definito “rapitore delle anime”. P. Angelo Sardone

Non recuso laborem!

La semina del mattino 132.

«Ricorda a tutti di essere pronti per ogni opera buona» (Tt 3,1). La prontezza è una virtù umana che fa reagire al dominio della pigrizia e dell’indolenza. Richiama sveltezza, preparazione attenta, vigilanza costante per poter agire ed intervenire in tutto ciò che occorre. Si riferisce analogamente a settori diversi di vita e di azione: la parola, l’ingegno, il movimento, le decisioni, e delinea una sorta di rapidità che si contrappone a lentezza ed inattività. La vita cristiana esige ogni giorno una prontezza decisa ed ampia che guarda e realizza ogni opera buona. Ne fa fede la testimonianza di S. Martino di Tours (316-397), ungherese di nascita, uno dei fondatori del monachesimo occidentale. Soldato romano e catecumeno, dopo la sua conversione divenne prima monaco e poi fu acclamato vescovo di Tours. Uomo di azione e preghiera, si diede allo studio della Scrittura ed all’evangelizzazione soprattutto delle campagne. La tradizione racconta del dono di metà del suo mantello fatto ad un mendicante esposto al freddo, «abito di virtù e veste di carità» (S. Annibale Di Francia). Protettore dei poveri, pacificatore e promotore della giustizia tra deboli e potenti, concluse la sua vita dopo aver riportato la pace in un monastero dove erano vivi dissidi e contrasti tra i monaci. È sua la celebre espressione che compendia il suo zelo apostolico e pastorale: «Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: sia fatta la tua volontà». Sulle sue orme anche io lo ripeto oggi, al compimento del mio 66° anno di nascita: non recuso laborem! P. Angelo Sardone

Servi inutili

La semina del mattino

131. «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Il termine servo evoca etimologicamente la condizione e l’atto di annodarsi, connettersi a qualcuno, a qualcosa. Indica la persona dipendente, non in grado di disporre di sé e dei propri beni. Maria di Nazaret si era definita “serva del Signore” e l’apostolo Paolo si presenta «servo di Gesù Cristo». Nell’accezione cristiana il padrone è Dio e noi siamo suoi servi, a servizio della sua volontà in quanto la vita è eminentemente servizio, un servizio per amore. Nel Vangelo Gesù specifica che dopo aver fatto quanto era dovuto, noi siamo «servi inutili», ordinari, delle cui prestazioni il padrone non ha bisogno, poveri, vili per l’umiltà della condizione. “Inutile” significa che non serve a niente, non produce, inefficace, senza pretese, senza rivendicazioni, senza alcun diritto. Tutto viene da Dio, grazia, amore, misericordia. Nulla ci è dovuto e non possiamo attribuirci alcun merito dal momento che ci siamo messi a disposizione, chiamati a servire. Negli insegnamenti di Gesù, secondo la mentalità allora comune, il servo sta ad arare, a pascolare il gregge, bada alla casa, serve il padrone in tutto, ha consapevolezza della sua inutilità. Ciò non significa che non ha valore in se stesso o nel lavoro che fa. Adempiendo il proprio compito non può avanzare nessuna pretesa davanti a Dio per aver meritato la sua grazia. Tutto, infatti, è dono suo. Il servizio di amore e per amore, viene compensato dall’Amore. P. Angelo Sardone

Il fondamento è Gesù Cristo

La semina del mattino

130. «Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,11). Il fondamento della nostra fede è Gesù Cristo morto e risorto. In Lui e da Lui trova senso non solo la vita cristiana ma anche tutto ciò che ruota nella divina Liturgia, nei Sacramenti, nell’amministrazione giuridica e funzionale. La moltitudine dei credenti, popolo di Dio radunato nel nome di Gesù, si definisce Chiesa, ossia assemblea dei chiamati. Si chiama chiesa anche il luogo di culto nel quale ci si raduna per celebrare la Parola di Dio ed il memoriale della morte di Gesù. Oggi si celebra la festa della Dedicazione della Basilica Lateranense di Roma, fatta costruire dall’imperatore Costantino ed intitolata al SS.mo Salvatore, con un battistero esterno dedicato a S. Giovanni Battista, donde il nome di S. Giovanni in Laterano ed un palazzo sede dei vescovi di Roma. Essa non è solo la Cattedrale di Roma, ma anche “capo e madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’orbe”. Distrutta e ricostruita varie volte, fu anche sede della celebrazione di cinque concili. La Chiesa è «il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Essa è l’edificio di Dio, costruito su Gesù Cristo, pietra rigettata dai costruttori, casa di Dio, tempio santo. Di essa fanno parte tutti i battezzati. Nessuno mai potrà sostituirne il fondamento, ma come pietra viva, ciascuno potrà sempre più cementarsi su di esso, con la garanzia che «Ubi Christus ibi Ecclesia. Dove c’è Cristo lì ce la Chiesa!». P. Angelo Sardone

Presenza d’amore sino alla fine

La semina del mattino

129. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1)

I Vangeli Sinottici (Matteo, Marco e Luca) riportano sia la moltiplicazione dei pani che l’istituzione dell’Eucaristia. S. Giovanni, invece, alla vigilia della passione e morte di Gesù, colloca la lavanda dei piedi agli Apostoli. È una sorta di trasposizione dell’istituzione dell’Eucaristia, il segno evidente che Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio perché nessuno si perda. La lavanda è preceduta da una espressione singolare: «Gesù amò i suoi discepoli sino alla fine». Sulla croce Egli ha dato la sua vita per il mondo intero: nell’Eucaristia offre la salvezza per la vita del mondo, per chi crede e per chi ancora non crede. Essa rende presente sacramentalmente questo dono nel corso della storia. Sino alla fine significa fino al compimento storico e temporale della sua vocazione di Figlio di Dio e Salvatore; fino alla manifestazione più significativa e più grande del suo amore, rimanendo perennemente in un minuscolo frammento di pane a ricordare la presenza reale, dove Egli tutto intero si fa sostanzialmente presente nella realtà del suo corpo e del suo sangue (S. Paolo VI). Nell’Eucaristia è manifestata la forma più alta del suo amore, rovesciando i criteri del dominio ed affermando in modo radicale il criterio del servizio: «Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti ed il servo di tutti» (Mc 9,35). Che grande dignità e gioia poter affermare con S. Paolo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me!». (Gal 2,20). P. Angelo Sardone

La furbizia dell’amministratore

La semina del mattino

128. «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti» (Lc 16,10). È molto eloquente la conclusione della parabola di Gesù sull’amministratore ingiusto e disonesto che gestisce gli affari del padrone e si rivela autentico sperperatore. Scoperto e minacciato, corre ai ripari perpetrando con frode ulteriori interventi illeciti per accattivarsi l’amicizia ed il favore dei debitori. Singolare è l’atteggiamento del padrone che invece di disapprovare, loda la pur biasimevole ed immorale soluzione, per l’astuta capacità di procacciarsi amici con un’ingiusta ricchezza. Gesù, dopo aver invitato i discepoli ad essere furbi «investendo» le proprie ricchezze nei poveri, e saper trarre anche dal male fatto qualcosa di bene, elogia la fedeltà nelle piccole cose, nella normalità del giorno e nell’ordinarietà della vita. Sono esaltati i valori della retta intenzione, del desiderio di piacere a Dio, di fare ogni cosa con amore e per amore. La fedeltà oltre essere una virtù, è un impegno vincolante basato sulla fiducia. Essa è perseveranza nell’amore e caratteristica dell’amore stesso. Si sviluppa sia nei confronti di Dio che degli uomini con lealtà e coerenza nel mantenere gli impegni presi, tenere saldi i legami, ed è sostenuta dalla forza dell’amore. La fedeltà nel piccolo si riverbera nelle cose grandi. Spesso ci ritroviamo amministratori infedeli, sperperando i doni ed i talenti di Dio, dai più semplici ai complessi, tradendo la fedeltà e l’impegno richiesti nella loro ordinaria amministrazione. La Parola di Gesù rimane pertanto un impegnativo monito per la sistematicità ordinaria di vivere ed agire correttamente. P. Angelo Sardone 

I nemici della croce di Cristo

La semina del mattino

127. «Molti, con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,18). Nella sua opera evangelizzatrice, con la predicazione e gli esempi di azione e comportamenti, S. Paolo invitava i primi cristiani ad imitarlo ed a guardare coloro che vivevano la loro vita cristiana secondo gli insegnamenti da lui ricevuti. La sua attenzione diventava spesso preoccupazione per la sorte di tanti che, dopo aver risposto con entusiasmo all’invito evangelico si attardavano dietro le situazioni umane, perdendo il senso ed il valore delle cose spirituali, se non addirittura schierandosi contro. Ciò determinava in lui uno sconforto tale da portarlo alla sofferenza fisica fino alle lagrime. Si trattava di accogliere nella vita il mistero della morte di Cristo e della sua risurrezione, primo principio della vera fede, tradotto nei comportamenti giornalieri improntati alla carità ed alla verità. Dinanzi alle ostinatezze il suo intervento fermo e deciso si trasformava in esortazione calda. piena di mestizia, ma anche ferma, evidenziando col peso significativo delle espressioni verbali, l’identità di questi cristiani come “nemici della croce di Cristo” e dichiarando apertamente la triste sorte loro riservata, la perdizione. Alla voracità del ventre come valore primario di auto soddisfazione da ogni punto di vista, alimentare e morale e alla sfacciataggine di un vanto del tutto inappropriato di pensieri, comportamenti ed azioni di cui bisogna invece vergognarsi, deve opporsi l’opzione fondamentale per Cristo, rimanendo saldi nella dottrina e nei principi evangelici liberamente accolti. In tanti modi anche oggi, purtroppo, si può esser è di fatto, nemici della croce di Cristo. P. Angelo Sardone

La pecora ritrovata

La semina del mattino

126. «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6). Spesso, soprattutto da bambino, osservavo con attenzione ed ammirazione mio padre che conduceva il gregge al pascolo: ero affascinato dalla sua arte di guidarlo, sorvegliarlo, mungere una per una le pecore, aiutare le partorienti, accudire gli agnelli. Il suo non era un lavoro, ma una liturgia, un rapporto d’amore con quelle creature che gli permettevano di muoversi sulla terra murgiana con riverenza, sacro rispetto, consapevole che da essa nasceva il nutrimento fresco al palato delle bestie, essenziale per farle vivere e prosperare. Talora succedeva che qualche pecora attratta da erba più verde si attardava e staccava dal gregge, o qualcuna prendeva un viottolo diverso, causando nel suo cuore un dispiacere ed una preoccupazione, soprattutto quando, al calare del sole alla conta nel recinto mancava al numero. Allora lasciava tutto al sicuro, sbarrava l’ovile: si poteva attendere per la mungitura perché era necessario ritrovare la pecora perduta. Non finiva di calare il sole quando lo vedevo ritornare: lo sguardo era dolce, la gioia gli invadeva il cuore, gli occhi erano fiammeggianti di luce. Quando sono diventato sacerdote ed ho cominciato a praticare l’arte pastorale del gregge del popolo di Dio, quelle immagini mi sono apparse fortemente didascaliche. Ed allora ho capito ancora di più la gioia raccontata da Gesù con la metafora della pecora ritrovata e ricondotta lietamente all’ovile. L’ho provata anche io e continuo a provarla ogni volta che un fratello o una sorella, attraverso il mio ministero sacerdotale, torna a Dio con la riconciliazione. P. Angelo Sardone

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