Il sacramento del battesimo di S. Annibale

«Fu battezzato nella parrocchia di S. Lorenzo, la sera del 7 luglio, avendo fatto da parroco il Canonico don Giuseppe Marchese, a un’ora e un quarto di notte». Gli appunti di famiglia scritti dal marchese Francesco Di Francia così concludono l’annotazione della nascita fisica e spirituale del figlio Annibale Maria nell’arco di appena due giorni: 5 e 7 luglio 1851. Il Battesimo fu celebrato nello stesso luogo nel quale i genitori si erano sposati il 2 giugno 1847, la Parrocchia di S. Lorenzo, allora ubicata nella chiesa di S. Maria della Provvidenza, di fronte al Torrente Portalegni. Lo amministrò, con licenza del parroco, il Can.co don Giuseppe Marchese, arcidiacono della cattedrale e Giudice della Regia Monarchia. Il padrino fu don Francesco Toscano, fratello di Guglielmo, nonno materno, lo stesso che aveva unito in matrimonio i coniugi Di Francia. Come primo nome gli fu dato quello di Maria. Ogni anno, nell’anniversario del suo Battesimo, S. Annibale si recava in quella chiesa a ringraziare il Signore del grande dono ricevuto, fino ai tempi del terremoto del 1908 quando la chiesa fu distrutta. Non ancora sacerdote, nel mese di maggio del 1876 nella parrocchia di S. Lorenzo il chierico Annibale introdusse per primo nella città di Messina, la devozione alla Madonna di Lourdes con preghiere e versi e fondò un’Associazione col titolo dell’Immacolata Concezione di Lourdes. Divenuto sacerdote più volte amministrò il Battesimo a diversi bambini: in particolare il 6 gennaio 1909, in un vagone della stazione di Messina lo conferì al piccolo Tommaso Natale Maria, nato il 1° gennaio 1909 da Ignazio Panarello e Francesca Laganà, reduci dal terremoto. Con la distruzione della chiesa, la parrocchia di S. Lorenzo trovò posto prima in una piccola baracca, affidata nel 1917 ai padri Carmelitani, e poi in una artistica chiesa, la Madonna del Carmine, completata il 1931. Qui si conserva il Registro dei Battezzati nel quale, è annotato l‘Atto di Battesimo di S. Annibale, l’anno 1851, al n. 165. P. Angelo Sardone   

L’eroismo della virtù della purezza

«Vite rigogliosa era Israele, che dava sempre il suo frutto» (Os 10,1). Con questi termini il profeta Osea definisce il popolo di Israele, rigoglioso nel suo essere e nei suoi frutti. Amato e condotto da Dio, era stato da Lui rivestito di ogni grazia spirituale e materiale. Ma l’abbondanza materiale ed il godimento del favore di Dio gli fu fatale perché determinò nella sua instabile fede, un vero e proprio disorientamento, accentuando facili illusioni e cocenti delusioni. A causa dell’infedeltà il popolo fu abbandonato a se stesso ed indotto a tornare al Signore. In questa prospettiva si inscrive l’eroicità di virtù in vita ed in morte di S. Maria Goretti (1890-1902), vittima innocente ad appena 12 anni, delle pulsioni istintive di Alessandro Serenelli suo carnefice ed uccisore. Di essa si celebra oggi la memoria liturgica. Solerte lavoratrice accanto alla mamma Assunta rimasta vedova ed impegnata nel lavoro dei campi nell’Agro Pontino, dopo la prima Comunione aveva maturato nel suo cuore il proposito di mantenersi casta nel corpo e di morire piuttosto che commettere peccati. In maniera completamente diversa, la pensava il diciottenne Alessandro Serenelli che, invaghito della fanciulla, fu accecato dalla passione, fino a tentare di violentarla. Non avendo raggiunto il suo scopo, scaricó tutta la furia istintiva sul suo corpo inerme della povera fanciulla colpendola per quattordici volte con un punteruolo. Il perdono ricevuto dalla santa vittima, dopo aver scontato il carcere, lo indussero al pentimento ed al ritorno a Dio. La vite rigogliosa della verginità e del martirio ha dato i suoi frutti non solo con la conversione dell’assassino ma anche con l’eloquente testimonianza di custodia fino alla morte, della bella virtù della purezza, oggi non sempre compresa ed evangelizzata, talora finanche ridicolizzata. P. Angelo Sardone

Buon compleanno S. Annibale!

«Il dì 5 luglio 1851 ad un’ora e mezza di sera, nascita di mio figlio Anni­bale, così chiamato in memoria del Marchese Annibale Bonzi da Bologna». Il cavaliere Francesco Di Francia dei marchesi di S. Caterina dello Jonio, negli appunti di famiglia con questi termini annota la nascita del suo terzogenito, Annibale, avvenuta a Messina nella casa in Via Gesù e Maria delle Trombe (odierna Via San Giovanni Bosco). Gli impose il nome di Maria Annibale, in onore di Annibale Bonzi da Bologna, suo grande amico. L’arrivo del bimbo impreziosiva ulteriormente la vita della famiglia che si era costituita qualche anno prima col matrimonio del Di Francia con donna Anna Toscano dei marchesi di Montanaro (1847) ed era stata già allietata dalla nascita del primogenito Giovanni Maria (1848) e di Maria Caterina (1849) donna di grande bontà. Il clima di famiglia fu contrassegnato sin dall’inizio da un grande pudore della giovanissima sposa, che era convolata a nozze ad appena 17 anni ed era andata a convivere col marito solo dopo oltre due mesi, nella casa di proprietà della famiglia Toscano, sita nel quartiere Portalegni. Una fede cristiana di alta qualità imperniata in una profonda devozione mariana e carità evangelica, permise ai genitori di dare ai figli oltre che il nome di Maria come secondo nome, una profonda formazione alla carità verso i piccoli ed i poveri ed una grande venerazione verso S. Giuseppe. Questi elementi diverranno propri di Annibale Maria che li assimilò, li incastonò nel carisma della preghiera ed azione per le vocazioni che ricevé dal Signore e li esplicitò anche nella fondazione delle due famiglie religiose che nacquero dal suo cuore: le Figlie del Divino Zelo (1887) ed i Rogazionisti del Cuore di Gesù (1897). Buon compleanno, S. Annibale Maria! P. Angelo Sardone

La consolazione che viene da Dio

«Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). Il lungo libro del profeta Isaia comprende 66 capitoli che riportano le gesta e le profezie di tre personaggi distinti e di epoche diverse che vanno sotto lo stesso nome. L’ultima parte, attribuita ad un Terzo Isaia, si colloca tra la fine dell’esilio e la costruzione del nuovo tempio a Gerusalemme, intorno al 520 a.C. L’oracolo sul tempio, che chiude il libro, comprende un giudizio su Gerusalemme e si conclude con un discorso escatologico. Un passaggio nel corposo giudizio che fa riferimento alla città di Gerusalemme, invita alla gioia per la sua ricostruzione e all’abbondanza di prosperità e ricchezza dei popoli, contiene un dolcissimo riferimento a Dio che consola, proprio come si comporta una madre verso il proprio figlio. Il tema in verità pervade tutta la seconda parte del libro detta ordinariamente “il Libro della consolazione”. Il bisogno di consolazione e di speranza si avverte maggiormente a seguito di situazioni particolari di difficoltà, a volte indipendenti dalla volontà, a volte dovute ad eventi di dolore, perdita di persone care, capovolgimenti di vita per gravi situazioni economiche, che necessitano di presenze consolatorie a conforto. Il nostro è il Dio di ogni consolazione, che consola in ogni nostra afflizione. Non lascia mai soli e proprio come una madre, attraverso eventi e persone singolari dona una carezza calda di amore ed offre uno spiraglio di luce che illumina il buio della vita e dà speranza. C’è oggi molta debolezza di consolazione. Mancano spesso consolatori. Chi si affida a Gesù è da Lui consolato ed è in grado di offrire a sua volta consolazione e condividerla con coloro che sono vittime del dolore e della disperazione. P. Angelo Sardone

La Madonna della Bruna a Matera

«Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda» (Lc 1,39). Fino alla riforma liturgica del 1969, il 2 luglio si celebrava la visitazione di Maria SS.ma a sant’Elisabetta. In essa si evocano la fede e la carità della Vergine di Nazaret messi a servizio delle necessità dell’anziana cugina Elisabetta prossima al parto. Oggi a Matera si venera Maria sotto il titolo singolare di «Madonna della Bruna», in origine un affresco bizantino risalente al 1270, del tipo “dell’odegitria”, conservato nella cattedrale. In esso Maria indica col dito Gesù che ha in braccio, come via di salvezza. Il titolo della «Bruna» non ha nulla a che fare con componenti cromatiche dell’affresco e della statua, ma richiama, secondo una etimologia linguistica, il termine “corazza” o Ebron, la città ove Maria si recò. L’intera città di Matera vive nella festa della sua protettrice, il giorno più lungo dell’anno. La statua della Madonna con il Bambino Gesù viene portata trionfalmente sopra un carro artisticamente addobbato. La Madonna della Bruna forma un tutt’uno con la Città dei Sassi, un legame che risale a più di 600 anni fa, il 1389, quando Papa Urbano VI fissò la festa liturgica della “Visitazione” al 2 luglio. La grandezza e la bellezza della festa sono caratterizzate oltre che dalle funzioni religiose, dalle sontuose luminarie, dalla processione col carro appositamente preparato e dallo strappo finale del manufatto che richiama la distruzione delle immagini sacre per evitare il saccheggio da parte dei Saraceni. Ogni anno viene proposto un nuovo carro a tema. Quest’anno è stato realizzato da Uccio Santochirico, giovanissimo maestro cartapestaio che guida il Laboratorio solidale della Cooperativa “Oltre l’arte” ubicato nei locali del Villaggio del fanciullo di Matera. Il racconto non può esaurire la realtà: almeno una volta nella vita bisogna vivere questa giornata a Matera. P. Angelo Sardone

Il coraggio dei profeti

«Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele» (Am 7,15). La sorte del profeta è sempre segnata da contraddizioni, difficoltà e pericoli causati dagli ascoltatori. La natura delle sue profezie non sempre corrisponde a quanto l’uomo vuole sentirsi dire. Talora la portata delle sue affermazioni è radicale e sferzante, soprattutto quando si rivolge verso le categorie dei responsabili civili e religiosi. Nel santuario di Bethel, in Samaria, il profeta Amos annunziava le parole che Dio gli aveva rivelato in merito al re del nord, Geroboamo. Certamente non erano dolci parole, dal momento che prevedevano la sua morte. Amasia, sacerdote del tempio, non solo rimprovera Amos ma gli ingiunge di andarsene al sud dove potrà profetizzare liberamente. La risposta del profeta è una lezione magistrale di apologia: “non sono profeta né figlio di profeta. È stato il Signore che mi ha chiamato ed inviato a profetizzare al popolo di Israele. Anzi, sta attento proprio tu: tua moglie si prostituirà ed Israele sarà deportato”. Gli interventi dei profeti, antichi e nuovi, sono efficaci nella misura in cui essi hanno piena coscienza di essere semplicemente dei canali attraverso i quali passa l’acqua della Parola che irrora, purifica, dá vita. Gli interventi scomodi che talora inaspriscono le relazioni ed evidenziano con realismo le situazioni, sono da attribuire non a vedute personalistiche o di parte, ma ad un dato che non appartiene al profeta ma che proviene dall’alto. Anche oggi i “veri” profeti sono inascoltati, derisi, umiliati e talvolta costretti alla ritirata perché non siano scalzati i dominatori di questo mondo, sorretti da lusinghieri consensi mediatici adulatori e profanatori della verità inconfutabile. P. Angelo Sardone.

Le colonne della Chiesa: Pietro e Paolo

«Colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani» (Gal 2,8). La testimonianza di prima mano dell’apostolo Paolo, sancisce in maniera inequivocabile, la sua grandezza e quella di Pietro. La Liturgia li accomuna nel martirio ed in un’unica solennità, perché essi «erano una sola cosa, testimoni della verità» (S. Agostino). Entrambi furono scelti e chiamati da Gesù di Nazaret: Simone figlio di Giona, il pescatore, sul lago di Galilea; Saulo, lo zelante e tenace persecutore, sulla via di Damasco. Gesù chiamò «Pietro» “kefas, roccia”, il capo degli Apostoli per simboleggiare il suo compito nella fondazione della Chiesa. Saulo mutò il nome in «Paolo», piccolo, perché nella traslitterazione greca il nome originario avrebbe potuto richiamare qualcosa di effeminato. Ad entrambi, pur macchiati dal rinnegamento e della violenta passione vessatoria nei confronti dei seguaci del Nazareno, Cristo affidò l’identità ed il ruolo di colonne della Chiesa. I segni che li contraddistinguono nella venerazione e nell’iconografia e statuaria classica, sono le chiavi del regno e la spada a doppio taglio della Parola di Dio. Pietro a Cesarea di Filippo ricevé le chiavi del Regno ed il potere di legare e sciogliere. Paolo fu riservato per la predicazione ai pagani e reso «vaso di elezione», per lo splendore della sua sapienza e la saldezza nella carità. Entrambi hanno dato la vita per il Signore Gesù. A entrambi la Chiesa riserva una venerazione tutta speciale riconoscendo il clavigero del regno ed il maestro dei popoli. Buon onomastico a tutti coloro, uomini e donne che portano il loro nome con l’auguro di imitarne la forza nell’evangelizzazione e l’impegno nella santificazione. P. Angelo Sardone

S. Ireneo di Lione, martire ed apologeta

«Il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti» (Am 3,7). Nel passaggio testuale col quale Amos racconta la sua vocazione, facendo riferimento all’elezione di Israele come esigenza di fedeltà, giustizia e responsabilità, il profeta afferma che se egli parla è perché Dio gliel’ha comandato. Viene così giustificato ogni intervento profetico, soprattutto quello che, ieri come oggi, può risultare duro o di rimprovero per il popolo. Se Dio parla il profeta non può fare altro che profetizzare! Questo compito che fu riservato nell’antichità ad un gruppo designato direttamente da Dio, continua nella storia attraverso uomini e donne illuminati dall’alto, che nel nome del Signore, qualunque ruolo occupino nella Chiesa e nella società, trasmettono la sua Parola e la testimoniano anche versando il proprio sangue. Oggi la Liturgia fa memoria del martire S. Ireneo vescovo di Lione (135-203), grande figura di apologista. Giunse in Gallia dove successe al novantenne Potito nella guida pastorale dell’intera regione. Con la parola e con gli scritti ammaestrò e difese la verità soprattutto con la sua grande opera di ben cinque libri, «Adversus Haereses» contro gli eretici. In essa, con l’eloquenza del teologo e l’arte del pastore, traspare il suo grande cuore intento a ricondurre all’ovile le pecore smarrite. Lo scorso 21 gennaio 2022 Papa Francesco lo ha dichiarato, primo martire nella storia del Cristianesimo, Dottore della Chiesa col titolo di «Doctor unitatis». La sua opera è ancóra interessante nella storia moderna e nella vita della Chiesa, dove, come si suol dire oggi, le pecore al sicuro nell’ovile non sono più 99 e quelle perdute non sono più una. Il suo nome è tutto un programma di vita cristiana: uomo di pace. P. Angelo Sardone

Le sferzanti verità del profeta Amos

«Ecco, vi farò affondare nella terra, come affonda un carro quando è tutto carico di covoni» (Am 2,13). Amos è stato certamente un grande profeta, anche se è annoverato tra i cosiddetti “minori” per via della consistenza quantitativa del suo libro. Proveniva da Tekoa in Giudea, non era profeta di professione ma un mandriano e raccoglitore di fichi. Agiva in forza di una chiamata specifica da lui stesso raccontata nel libro omonimo, il più antico tra i libri profetici, che contiene i discorsi fatti tra il 760 ed il 750 a.C. in un tempo di prosperità e di pace. Ma il lusso dei potenti e dei grandi è in contrasto con la povertà dei miseri, lo splendore del culto abbaglia e non evidenzia la mancanza di una religione vera. Nella sezione iniziale del libro, indicata come “giudizio sui popoli”, si rileva quello contro Israele che dovrà attendersi il giudizio perché i suoi crimini sono più gravi di quelli degli altri popoli e grande è la sua responsabilità. Per questo condanna la corruzione della vita, le ingiustizie sociali, la falsa sicurezza e lo sfarzo dei riti che non si collegano con la realtà della vita dei poveri. Nonostante ci siano di mezzo secoli di storia e di vita umana, la realtà descritta sembra fotografare per tanti versi situazioni che si sono ripetute nel corso del tempo e che ancora oggi richiedono una voce vigorosa, che sferzi la sontuosità di riti, le celebrazioni vuote, ed esalti la verità delle esigenze e dei bisogni primari in ordine alla vita ed allo spirito. Una mania pericolosa e subdola sembra talora avvolgere anche alcune frange di ecclesiastici, con una ritualità fascinosa di merletti, code e consensi, a fronte di problemi più gravi ed esistenziali. P. Angelo Sardone

La vocazione di Eliseo

«Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te» (1Re 19,20). Il servizio a Jahwé svolto con passione e non senza difficoltà dal profeta Elia, continua col suo discepolo Eliseo: su di lui, infatti, si erano posati due terzi dello spirito del maestro, assunto in cielo da un carro di fuoco. Era tale la quantità di beni che spettava al figlio maggiore. Aveva inoltre recuperato il mantello col quale, al pari di Elia, percuoterà il Giordano provocando l’apertura del fiume ed il passaggio a piedi asciutti. Le sue gesta, a cominciare dalla sua vocazione, sono riportate nel Primo e Secondo Libro dei Re che presentano come una collezione di aneddoti più che una biografia. La sua statura non è pari a quella di Elia, nonostante sia ammirato come taumaturgo. Eliseo, figlio di Safat, era intento all’aratura con dodici paia di buoi, quando Elia, in cammino verso l’Oreb, lo incontrò ed in segno di diritto su di lui, gli gettò addosso il suo mantello. Nell’accezione biblica il mantello simbolizza la personalità ed i diritti di uno che è proprietario. Con simile gesto Elia manifesta il diritto su Eliseo che da adesso in poi non gli si può sottrarre. Il resto è tutta una conseguenza: Eliseo gli chiede di andare a salutare i suoi genitori, quindi distrugge il suo aratro, uccide un paio di buoi la cui carne dà da mangiare la gente, si alza dal suo anonimo stato di figlio ed entra a servizio pieno del profeta. Si raccordano così tutti i connotati della chiamata divina, questa volta mediata dall’uomo, che fa prevalere la scelta di Dio ed il suo diritto sull’uomo stesso, in vista di una missione ben precisa affidatagli, nella continuazione di quella più grande del suo maestro. Questa vicenda si ripete anche oggi: occorre comunque un Elia di turno. P. Angelo Sardone