Le virtù teologali a Tessalonica

«Tengo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza» (1Tes 1,3). La prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi è considerata il primo scritto dell’Apostolo, composta intorno al 50 d.C. nel soggiorno invernale a Corinto. In generale essa traccia esortazioni di condotta cristiana che saranno riprese ed espresse in altre sue lettere. Tessalonica, l’odierno Salonicco, si trovava sulla via Egnazia, la strada che collegava l’Italia con Bisanzio. Aveva un porto ed un fertile retroterra. Paolo la raggiunse nel suo secondo viaggio: fu accolto bene dai pagani ma non dai Giudei talmente ostili da suscitare una rivolta contro di lui. Paolo ha un grande amore per i Tessalonicesi e li indica come il suo vanto. Nell’indirizzo iniziale e nelle felicitazioni introduttive esalta i valori teologali espressi nelle rispettive virtù e nella pratica di vita cristiana. In particolare, l’impegno operoso nella fede, la fatica nell’esercizio della carità, la costante speranza nel Signore Gesù Cristo. Queste tre disposizioni cristiane sono il frutto dell’ascolto e dell’accoglienza del Vangelo e determinano praticamente l’azione nella vita della Chiesa locale. Rappresentano parametri sempre attuali e costitutivi dell’essenza della Chiesa che deve necessariamente distinguersi nella prassi di vita dei cristiani a partire da una fede certa, da una carità operosa e da una speranza continua in Cristo. Come Paolo, gli attuali pastori devono essere autentici e pazienti missionari in una società che respinge questi valori e comunità che facilmente li annacquano. Oggi la Chiesa ricorda S. Rosa da Lima (1586-1617), uno dei primi fiori di santità dell’America Latina. Nella sua bellezza e nel suo ardore di vita dà lustro alla Chiesa ed esalta la grandezza delle virtù cristiane. Auguri a tutte coloro che ne perpetuano il nome. P. Angelo Sardone

Il Pane della vita: mistero di fede

  1. «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60). L’intenso ed articolato discorso del pane che Giovanni riporta nel capitolo sesto del suo Vangelo, si conclude con una duplice affermazione, dura in entrambi i casi. Molti dei discepoli, gente comune ed anche gli Apostoli, non hanno capito la portata dell’insegnamento certamente non facile da comprendere perchè innovativo, rivoluzionario, fuori di ogni logica umana. I termini adoperati dal Maestro sono profondi ed alti: non si tratta di un pane materiale ma spirituale, non di un dato terrestre ma celeste, non di un concetto ma di una persona, Cristo stesso che si fa cibo e bevanda di vita offrendo il suo corpo e sangue. Il pane è solo il segno concreto, visibile, reale nella sua materialità e verità. Gesù afferma che bisogna mangiare il suo corpo e bere il suo sangue ed adopera il verbo “troghein” che nel linguaggio greco significa mangiare facendo rumore, proprio come avviene con il pane croccante. Il grande miracolo che il Concilio di Trento definirà “transustanziazione”, è la trasformazione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue del Signore. E questo per sempre, col “memoriale” della Pasqua di morte e risurrezione, nella celebrazione della santa Messa. È quindi più che normale che la gente non capisca e dichiari dura ed incomprensibile la Parola. Ma Gesù non cede e non torna indietro pur vedendo che molti si allontanano da Lui. Proprio ai Dodici Gesù dice: volete andarvene anche voi? Pietro si fa loro interprete proclamando una grande professione di fede: Tu solo hai parole di vita eterna. L’Eucaristia che anche oggi celebriamo è un eminente mistero di fede, difficile da credere! P. Angelo Sardone

XXI domenica del Tempo ordinario: sintesi liturgica

Nell’assemblea di Sichem riservata alle tribù di Israele ed ai responsabili del popolo, Giosuè chiede espressamente se intendono servire il Signore o gli dei degli Amorrei nel territorio ora abitato. La risposta è precisa: vogliono servire il Signore dei Padri, avendo conosciuto i grandi segni da Lui operati e la custodia da Lui beneficiata. La vicendevole sottomissione all’interno del matrimonio cristiano, rende i mariti e le mogli complementari nel reciproco dono dell’amore. Il marito che ama la moglie, ama se stesso. L’abbandono dei genitori ed il vincolo di unità col coniuge esprimono e manifestano la grandezza del mistero in riferimento al prototipo di Cristo che ama la Chiesa sua sposa. Nella linea del mistero si colloca la conclusione del discorso di Gesù sul Pane della vita: è incomprensibile umanamente e motivo di abbandono del Maestro. Lasciati liberi di andare, i discepoli riconoscono di non sapere dove andare, scostandosi dalla Parola di vita eterna e dal Santo di Dio. P. Angelo Sardone

Pio X, papa grande e santo

«Benedetto il Signore: non ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto» (Rt 4,14). Obbediente ai consigli della suocera, Rut si avvicina a Booz un non più giovane, ma saggio ed equilibrato parente di Noemi. Egli era subentrato ad un altro parente che aveva il diritto di riscatto del campo di Noemi e che aveva rinunziato per non danneggiare la sua eredità, dal momento che ciò implicava anche il prendere in moglie Rut, la Moabita. Booz riscatta il campo e sposa Rut la straniera che così viene a collocarsi nella discendenza dalla quale proverrà Gesù. Dalla loro unione, infatti, nascerà Obed, padre di Iesse, padre di Davide. Nel secolo scorso il Signore non ha fatto mancare S. Pio X (1835-1914), un papa che ha esercitato il diritto di riscatto ed una intransigente difesa dell’ortodossia della dottrina cattolica, con la lotta e la condanna del modernismo teologico con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis e la redazione del Catechismo Maggiore. Secondo di dieci figli di una modesta famiglia di contadini, percorse il suo itinerario ecclesiastico in una successione prevalentemente pastorale e non da carriera. Entrato nel seminario di Padova, fu ordinato sacerdote nel 1858; divenne cappellano in una parrocchia; quindi arciprete, canonico e cancelliere vescovile, vescovo di Mantova, patriarca di Venezia, e nel 1904 fu eletto papa. Poliedrico nei suoi interventi ed interessi pastorali, avviò la riforma del Diritto canonico, del canto sacro, ripristinò l’età della prima Comunione e della prima Confessione dei bambini all’età dell’uso della ragione e promulgò il nuovo Breviario. La Chiesa lo ricorda per la sua santità di vita che supera di gran lunga la serie di interventi magisteriali che lo hanno reso famoso. P. Angelo Sardone

Rut e S. Bernardo, una singolare testimonianza di amore

«Dove andrai tu andrò anch’io; il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16). Il libro di Rut, uno dei più piccoli della Bibbia di appena 4 capitoli, fa parte della sezione ebraica degli “agiografi”. Era letto generalmente nella festa di Pentecoste. Narra la storia di Rut, una moabita, il cui nome significa “amica”. Alla morte del marito nativo di Betlemme, mentre sua cognata Orpa anch’essa vedova, assecondando l’insistenza di Noemi, la suocera comune, si accomiatò da loro e tornò nel suo paese, Rut decise di tornare con Noemi in Giudea. Le sue espressioni tenere e delicate evidenziano un amore grande ed un rispetto lodevole nei confronti della suocera il cui bene ritiene superiore a qualsiasi altro egoistico e ad una diversa sua realizzazione. Si trasferisce a Betlemme e, secondo la legge del levirato, sposa Booz, parente del marito. Da questa unione nasce Obed, futuro nonno di Davide. È un bellissimo testo che sottolinea il valore della Provvidenza di Dio e la sua misericordia anche su una persona straniera. Non è facile nella storia di sempre trovare esperienze simili corredate di affetto, di attenzione e cura di una nuora verso la suocera. Ciò sarà provvidenziale perché così Rut rientrerà nel piano genealogico che porta a Gesù. Oggi si celebra la memoria di S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), uno dei più grandi abati di tutti i tempi, dotto e santo, insigne cantore della Madonna, formatore di intere generazioni di Santi. Congiunse la quiete monastica con l’impegno pastorale nella soluzione dei problemi politico-religiosi del suo tempo. Il suo motto «Amo perché amo, amo per amare» lo accomuna a Rut in una esemplare testimonianza d’amore. P. Angelo Sardone

La figlia di Iefte: vittima di un crudele destino

«Figlia mia tu mi hai rovinato! Ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi» (Gdc 11,35). Uno dei Giudici minori fu Iefte, figlio di Galaad e di una prostituta. La storia che ruota attorno a lui ed al suo voto è davvero emblematica e significativa e lo assimila ai maggiori. Fu scelto da coloro che lo avevano prima ripudiato per via della sua situazione, e divenne condottiero per combattere gli Ammoniti. Per propiziarsi il Signore fece a Lui voto che al ritorno della disfatta dei nemici, chiunque di casa sua gli fosse andato incontro, sarebbe appartenuto al Signore e l’avrebbe offerto in olocausto. Malauguratamente la prima a presentarsi fu sua figlia, l’unica sua figlia, la quale assolutamente ignara della promessa del padre gli era andata incontro con tamburelli e danze per fargli festa. La disperazione del padre si espresse con drammatiche parole che si concretizzarono anche col drammatico gesto del suo sacrificio. Prima di questo il padre le spiegò il suo impegno col Signore e l’impossibilità di venire meno alla parola data. La fanciulla comprese e chiese solo di andare per i monti con le sue compagne a piangere la sua verginità. Infatti non aveva conosciuto uomo. Si tratta dell’unico caso nella Bibbia di sacrificio umano ultimato, vittima innocente di una ragione di stato. Il voto di Iefte non era strettamente necessario, né era espressione della fiducia totale in Dio, ma quasi a volerLo legare per la positiva conclusione della guerra. Si manifesta in ultima analisi come un atto superficiale ed idolatrico. La figlia piange la sua verginità nel senso che, offerta al Signore, non avrà la possibilità di essere feconda nella generazione di un figlio. Molteplici sono le considerazioni che si possono trarre. P. Angelo Sardone

La parabola degli alberi. Dio unico re in Israele

«Vieni tu, regna su di noi!» (Gdc 9,10). La condizione politica di Israele è quella di un popolo teocratico, cioè che ha Dio come unico Signore, unico vero re. Ciò lo distingue dagli altri popoli e l’esperienza dell’esodo lo conferma ampiamente. La collocazione nella Terra promessa lo incita però ad una sorta di conformazione agli altri popoli, lo induce a volere un proprio re. Si determina così un forte contrasto con la fede e l’abbandono fiducioso nell’unico Dio che è l’unico signore e il nuovo atteggiamento sa di prostituzione. Il Libro dei Giudici racconta l’evento tragico della faida familiare avvenuta dopo la morte di Gedeone. Un suo figlio, infatti, Abimelec, che non ha diritto di successione perché nato da una schiava, fa uccidere tutti i suoi settanta fratelli. Il più piccolo, Iotam, che scampa il pericolo perchè si è nascosto, come Gedeone si fa paladino dell’unica sovranità che spetta a Dio. Sul monte Garizìm proclama una significativa parabola. In essa, con l’ausilio di una intelligente simbologia agreste, induce il popolo a comprendere che non ha bisogno di essere guidato da un re umano, perché gode del sostegno e della supremazia di Jahwé. Gli alberi adoperati come immagine di stabilità e ricchezza, l’ulivo, il fico e la vite non vogliono rinunziare alle loro naturali potenzialità per governare sugli altri alberi. Il rovo spinoso è l’immagine più adatta a spiegare l’identità di Abimelec, il sanguinario dittatore che può portarli alla rovina. Qualunque potere non potrà mai eguagliare quello di Dio che non rende schiavi ed inebria con le lusinghe il popolo anche quando questi manifesta tutta la sua debolezza, la paura e l’inconsistenza di autonomia e saggezza. P. Angelo Sardone

Gedeone, il Giudice del vello

«Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo» (Gdc 6,16). Il quinto dei Giudici preposti da Dio per la salvaguardia del popolo di Israele fu Gedeone della tribù di Manasse, uomo forte e valoroso. Viveva ad Ofra nella Galilea. Le sue gesta sono riportate nei capitoli 6-8 dell’omonimo libro dei Giudici. A distanza di circa quarant’anni di pace, nell’altalena di una fede vacillante nei confronti di Jahwé e dei suoi comandamenti, Israele cade in disgrazia sotto gli attacchi furenti dei Madianiti e degli Amaleciti, popolazioni circostanti. In questo contesto attraverso un Angelo, il Signore si manifestò a Gedeone intento a battere il grano per sottrarlo ai Madianiti. Il dialogo intercorso

evidenzia lo sconforto suo e del popolo per la grave situazione dell’abbandono nelle mani dei nemici. Il Signore è deciso: «Va’ con la tua forza e salva Israele dalla mano di Madian. Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo». Pur nell’incertezza della fede, nonostante l’abbandono in Dio, Gedeone chiede un segno e si mette a disposizione per offrire ospitalità. Prepara un capretto col brodo e focacce non lievitate. L’Angelo del Signore con l’estremità del suo bastone tocca la carne e le focacce àzzime ed un fuoco proveniente dalla roccia li consuma. Il timore e la paura di avere avuto a che fare con Dio, sono attenuati dalle parole di Dio stesso che gli assicura che non morirà. Quando Dio si manifesta ed affida una missione particolare lo fa con interventi straordinari ed invita ad avere fiducia: tutto il resto lo farà Lui stesso. Bisogna crescere in questa consapevolezza ed affidarsi ciecamente a Dio. P. Angelo Sardone

I Giudici in Israele

«Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal abbandonando il Signore» (Gdc 2,11). Il Libro dei Giudici documenta l’arco di storia biblica del popolo d’Israele, dal XIII secolo a.C. fino all’epoca della monarchia. I capi militari e spirituali che l’amministrano sono i Giudici, suscitati e sostenuti da Jahwé. Governano le Tribù liberandole dalle minacce dei popoli vicini mentre si consolida la presenza del popolo d’Israele nella Terra Promessa, circondata da nemici di ogni genere. Gli attacchi politici e devastatori dei popoli circostanti sono giustificati biblicamente dall’infedeltà del popolo facilmente attratto dai culti baalistici ed astartici. Quando il popolo si mantiene fedele le sue sorti sono positive e prolifiche. Quando invece è vistosamente infedele le sorti si rovesciano e cade in disgrazia di Dio. Piombano allora predatori e nemici che riducono il popolo di Israele all’estremo. Il Signore preso a compassione, suscita i Giudici. Si sviluppa però l’altalena della fedeltà: fino a quando il giudice era in vita il popolo si comportava bene ed era salvaguardato. Quando il giudice moriva, tornava a corrompersi più di prima, a seguire, servire e prostrarsi davanti ad altri dèi senza desistere da pratiche idolatre e dalla ostinata e ribelle condotta. Un ruolo pressocché analogo fu esercitato da S. Rocco di Montpellier (1350-1379), «un umile servitore di Gesù Cristo». Nonostante che la sua vita sia contornata da notizie frammentarie e leggendarie, è il santo più invocato dal Medioevo in poi, come protettore dalla peste. La sua popolarità rimane tuttora viva e la sua intercessione efficace anche in questa terribile pandemia del Covid19 e in quella più comune e corrente del peccato. Auguri a tutti coloro che ne portano il nome. P. Angelo Sardone

Maria Assunta in cielo, segno della gloria futura

«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo» (Apc 11,10). La solennità dell’Assunzione di Maria, detta in Oriente “dormitio Virginis”, collocata liturgicamente a metà agosto è una delle feste mariane più antiche. Pio XII il 1° novembre 1950 ha dichiarato l’Assunzione dogma di fede, cioè verità rivelata. Maria, preservata dalla macchia di peccato, «terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo» (Costituzione apostolica Munificentissimus Deus). Questo mistero è anticipazione della risurrezione finale, primizia della Chiesa del cielo e segno di consolazione e di speranza per la Chiesa pellegrinante in terra. L’Assunzione di Maria non implica necessariamente la sua morte, ma neppure la esclude. Le attestazioni storiche e teologiche più significative partono dal VI secolo. «A Colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità è stato concesso di conservare integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Ciò a motivo di suo Figlio» (S. Giovanni Damasceno). Su questa grandiosa verità talora prende il sopravvento anche dal punto di vista terminologico ed augurale, il cosiddetto Ferragosto, cioè il giorno 15 di agosto. Esso designa le antiche “ferie di Augusto”, la festività istituita dall’imperatore Augusto il 18 a.C. per celebrare i raccolti, concludere i principali lavori agricoli e vivere un periodo di riposo. Nella mentalità comune anche tra i cristiani, Ferragosto sembra prevalere sulla festività liturgica mariana. Gli auguri che si sogliono fare sono infatti “Buon ferragosto” come a dire “buon quindicesimo giorno del mese di agosto” e non tanto “Buona solennità dell’Assunta”. C’è qualcosa da correggere. P. Angelo Sardone