Il mormorìo leggero della brezza

«Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore» (1Re 19,11). Il ciclo biblico del profeta Elia è corredato da episodi diversi attraverso i quali il Signore lo conduce nella realizzazione della sua vocazione di profeta di fuoco, che si porta addosso la stanchezza del suo servizio ed anche la illimitata obbedienza al vero e potente Dio. La tappa del monte Oreb segna come la svolta ulteriore di fede che il Signore stesso gli chiede, per segnare con la sua esperienza l’itinerario concreto del cammino in Dio. Il comando di Jahwé è perentorio: «esci e fermati». La paura, il dubbio, i condizionamenti umani di timore e tremore dinanzi allo strapotere arrogante del re Acab e Gezabele lo hanno debilitato e chiuso in una melanconica considerazione della vita, fino a desiderarne la conclusione. Deve uscire da se stesso e fermarsi in alto, sul monte perché è lì che incontrerà il Signore che gli si manifesterà nella forma giusta e potrà godere della sua presenza. Le modalità della teofania sono quattro: il vento impetuoso, il terremoto, il fuoco, il mormorio leggere della brezza. Solo in quest’ultima il profeta riscontra con certezza la presenza di Dio. È qui sotteso un grande insegnamento, valido per ogni tempo e per ogni condizione sociale e religiosa: nell’esperienza umana con la molteplicità delle situazioni provvide e dolorose, la manifestazione di Dio non avviene con le cose strepitose e rumorose: il vento che spacca ogni cosa, il terremoto che devasta, il fuoco che consuma, ma nel venticello leggero come la brezza del mattino, il mormorio ed il dolce sussurro del cuore che penetra nella profondità dell’essere. Qui si configura nella certezza la presenza di Dio e la sua formidabile azione salvifica. P. Angelo Sardone

Lo “Shemà Israel”

«Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore» (Dt 6,6). Il secondo grande discorso di Mosè subito dopo aver fatto memoria del dono del decalogo, riporta la preghiera cosiddetta dello «Shemà Israel», cioè «Ascolta Israele», che è una delle più care alla pietà giudaica di ogni tempo, la preghiera che il pio Israelita recita al mattino e alla sera. La Liturgia cattolica l’ha collocata come lettura breve di Compieta del giorno di sabato. Essa è l’incipit del primo comandamento. La fede nell’unico Signore si è sviluppata nel popolo eletto a partire dalla sua elezione, dal dono dell’alleanza al Sinai, dal cammino costante nonostante le difficoltà e le tribolazioni della sua storia. Dio insegna il suo amore non come una scelta ma come un autentico comando nella totalità del cuore, dell’anima e delle forze, che include il timore e l’osservanza dei suoi comandi. Queste indicazioni si ritrovano in riverbero nella predicazione di Gesù. Un elemento emergente è l’oggi: per l’Israelita e per il cristiano «oggi» è ogni giorno, il presente, guardando al passato, ma proteso al futuro. La Parola ricevuta ogni giorno deve essere accolta ed ascoltata nella profondità del cuore e dell’amore dalle orecchie al cuore per custodire e ricordare. L’ascolto e la custodia predispone ad una azione concreta da compiere, ad una presa di posizione, sempre. Il ricordo viene sollecitato dal gesto di legare i precetti del Signore al cuore, di fissarli attorno al collo per essere guidati e sorretti di giorno e di notte, quando si cammina e quando si riposa nella corretta condotta. È un grande insegnamento ed un precetto che deve guidare ogni giorno la vita del cristiano di qualunque età e condizione. P. Angelo Sardone

S. Chiara o della “povertà”

«Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per educarti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole che venivano dal fuoco» (Dt 4,32). Il Libro del Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè che, da portaparole di Dio, ammaestra il popolo e lo forma all’obbedienza a Jahwé ed al compimento della sua volontà nel lungo cammino verso la Terra Promessa. In un passaggio del primo discorso, si esalta la voce con la quale Dio educa il suo popolo, simboleggiata col fuoco, fonte ed essenza stessa della sua Parola. Nel fuoco dell’amore, nell’accoglienza della Parola e con la mediazione carismatica di Francesco d’Assisi, si colloca la vita e la santità di Chiara d’Assisi (1193–1253), ricca, nobile e bella fanciulla, fedele discepola del poverello d’Assisi e sua pianticella, che «seguì in tutto le orme di colui che si è fatto povero e via, verità e vita». «Chiara fonte di luce» rispecchia nel suo nome la grandezza del suo percorso di santificazione che coinvolge la madre e le sorelle, per divenire lei stessa madre di una moltitudine di donne, il secondo ordine avviato insieme con Francesco, le «Povere dame» meglio conosciute come «Clarisse» con una rigida regola prima di Francesco e poi sua, riconosciuta da papa Gregorio IX col «privilegio della povertà». Colpita dalla malattia quando ha appena trent’anni, esercita il suo ruolo di madre premurosa, guida sapiente ed esempio di vita evangelica con un apostolato di sofferenza e testimonianza, segnato da un amore straordinario all’Eucaristia e dal servizio umile nei confronti delle sue monache. Ad esse lava i piedi esortandole all’amore del Vangelo del Signore, vivendo come sorelle, in unità e altissima povertà. Il suo testamento, la benedizione e quattro lettere a sant’Agnese di Praga, clarissa anch’essa, costituiscono il patrimonio letterario e spirituale di questa donna eccezionale, colosso di santità ed iniziatrice di un movimento carismatico che ancora oggi nel mondo ha tante seguaci. Auguri vivissimi a tutte coloro che portano il dolce nome di Chiara, perché siano nella vita ciò che esso significa. P. Angelo Sardone

S. Lorenzo, la graticola e le stelle

«Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia» (2Cor 9,10). Nell’organizzare e promuovere la colletta a favore dei poveri di Gerusalemme, S. Paolo adopera termini convincenti che inducono i cristiani di Corinto a comprenderne il senso legato alla condivisione ed alla espressione di una carità vera, generosa e gioiosa. Un passaggio è diventato espressione proverbiale: «Dio ama chi dona con gioia». La semente distribuita da Dio, seminatore nel mondo, fa crescere i frutti relativi unitamente alla testimonianza ed alla fedeltà al ministero del dono da parte di chi si vota al suo servizio. Tale fu la vita e l’opera di S. Lorenzo, diacono della Chiesa di Roma, amministratore dei suoi beni verso i poveri, autentici veri e grandi tesori. A lui fu chiesto dall’imperatore romano di consegnare i tesori della Chiesa. In tre giorni di tempo vende i beni della Chiesa donando il ricavato ai poveri e li raduna. Ci sono tutti: storpi, vecchi, mendicanti, orfani, vedove, affamati e li conduce dinanzi al prefetto come i veri tesori della Chiesa di Roma. La Tradizione fatta propria da sant’Ambrogio, narra che il coraggioso diacono fu bruciato sopra una graticola all’età di 33 anni in Panisperna e poi sepolto al Verano nell’agosto del 258. Al Santo ed al 10 agosto è legata la tradizione delle stelle cadenti che non sarebbero altro che le lacrime versate da Lorenzo durante il suo martirio o i carboni ardenti sotto la graticola sulla quale fu arso. Quel dolore incute speranza che quelle stelle che cadono possano far avverare il desiderio di chiunque coglie
l’attimo della loro caduta. P. Angelo Sardone

La santa ebrea

«Ecco, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là mi risponderà. Ti farò mia sposa per sempre, nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza» (Os 2,16-21). La lettura liturgica odierna tratta dalla simbologia biografica del profeta Osea, racchiude mirabilmente in sorprendente sintesi la vita e l’opera di una grande santa contemporanea, Teresa Benedetta della croce (1891-1942), meglio conosciuta come l’ebrea Edith Stein. Le espressioni profetiche che stigmatizzano il rapporto di Dio con il popolo d’Israele rappresentato come una sposa infedele, si addicono alla ricca esperienza di vita di una donna intelligente, volitiva, alla ricerca del vero e del bello. I passaggi esistenziali della sua vita la vedono fluttuante dai valori della fede ebraica nella quale era nata, alla professione agnostica, dalla filosofia fenomenologica alla sequela di Husserl alla conversione al cattolicesimo alla sequela di Cristo, dall’insegnamento alla scelta carismatica del Carmelo di Colonia. Proprio per via della sua origine ebrea insieme con sua sorella Rosa, fu prelevata dalla Gestapo dal convento di Echt in Olanda e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove il 9 agosto 1942 morì nella camera a gas. In un celebre saggio su S. Giovanni della Croce, in occasione del quattrocentesimo anniversario della sua nascita, aveva formulato la «Scienza della Croce» che è tale e «può essere appresa solo se si sente tutto il peso della croce». Il passaggio dal deserto e la benevolenza del Signore l’aveva tratta dal popolo e resa testimone della presenza di Dio. Insieme con S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena, è Compatrona dell’Europa. P. Angelo Sardone

Parlava con Dio o parlava di Dio

«Egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, ed egli contempla l’immagine del Signore» (Nm 12,7-8). Le avversioni per Mosè, il più umile uomo sulla terra, furono perpetrate anche dai suoi fratelli di sangue, Maria e Aronne che parlarono contro di lui, rivendicando il loro ruolo di emissari di Dio. La risposta venne direttamente da Jahwé che chiarì che Mosè era il suo uomo di fiducia, lui che contemplava il suo volto ed al quale si rivelava in visione. La punizione per tanto ardire fu che Maria divenne lebbrosa, ma per l’intervento supplice del fratello fu poi guarita. Oggi si ricorda S. Domenico di Guzman (1179-1221), uno dei santi più noti e dotti della agiografia cattolica, uomo di fiducia di Dio, contemporaneo di S. Francesco d’Assisi, acuto nel pensiero e pratico nell’azione apostolica. Spagnolo di nascita, è il fondatore dell’ordine dei Frati Predicatori che da lui prendono il nome di Domenicani. Carità e povertà furono gli elementi che riportò negli insegnamenti della vita, in correlazione alla predicazione itinerante ed alla mendicità, alla singolare osservanza monastica ed allo studio approfondito. Proprio quest’ultimo gli permise di far prendere ai suoi figli le strade dei maggiori centri universitari europei, soprattutto Bologna e Parigi. Il servizio della predicazione di cui si era definito “umile ministro” prende con lui una forma stabile ed organizzata. Le caratteristiche che ancora oggi risplendono nel suo Ordine sono: la povertà mendicante, la predicazione che scaturisce dalla contemplazione, la devozione a Maria, lo studio, la vita liturgica, la vita comune. «Tenero come una mamma, forte come un diamante», lo definì Lacordaire, un grande suo figlio domenicano. Auguri a tutti coloro che, uomini e donne, portano il suo nome. P. Angelo Sardone

Un grande riformatore

«Porta in grembo il popolo, come la nutrice porta il lattante» (Nm 11,14).

Fu davvero notevole il peso di responsabilità e di pazienza che Mosè si accollò nel servizio richiestogli da Dio di condurre il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto alla terra promessa. Divenuto ribelle ed ostinato, Israele provocò anche il suo condottiero ad un atteggiamento risentito nei confronti di Jahwé. Ma poi tutto si riprese per l’infinta pazienza di Dio. Alla maniera di Mosè, invitto restauratore della vita sacerdotale e religiosa del suo tempo, accollandosi tutte le responsabilità ed i relativi pesi, fu S. Gaetano da Thiene (1480-1547) del quale oggi si celebra la memoria liturgica. Nella preghiera e nel servizio ai poveri, guardando alla Chiesa apostolica ed ispirandosi al discorso della montagna, mettendo in atto i valori della prudenza e l’amore per la dottrina, percorse un itinerario di annientamento mistico per tutte le vicende storiche e pastorali nelle quali si trovò coinvolto. Nel 1524, aiutato in particolare da Giampietro Carafa, che era stato vescovo di Chieti (Theate) e che più tardi diventerà papa Paolo IV (1559), fondò la Compagnia dei Chierici Regolari detti «Teatini» con l’intento di rinnovare lo spirito sacerdotale e religioso con il buon esempio, il disprezzo delle ricchezze e la povertà. A Napoli dove si trasferì e morì, per liberare i cittadini dall’usura praticata dagli Ebrei istituì il Monte di Pietà: i bisognosi prendevano in prestito il denaro lasciando un pegno di garanzia. L’iconografia corrente lo ritrae con Gesù Bambino in mano per averlo ricevuto direttamente dalla Madonna nella celebrazione del Natale del 1516 quando celebrò la sua prima Messa nella basilica di S. Maria Maggiore. Auguri a tutti coloro che portano il suo nome, perché ricalchino nella loro vita la straordinaria virtù praticata dal gran Santo nell’umiltà e nella eroica coerenza. P. Angelo Sardone

Gesù trasfigurato

Il profeta Daniele è presentato nel libro omonimo come un giovane giudeo che era stato deportato alla corte del re Nabucodonosor. È considerato uomo saggio e giusto. L’inizio della seconda parte del libro contiene le visioni notturne, di cui egli è beneficiario, delle bestie, prima, del Figlio dell’uomo, poi. La visione delle quattro bestie, una differente dall’altra, riporta la loro descrizione. Salgono dal mar Mediterraneo e sono un leone con ali di aquila, un orso, un leopardo, una quarta spaventosa, terribile con dieci corna. Rappresentano rispettivamente l’impero di Babilonia, il regno dei Medi, quello dei Persiani, il regno di Alessandro. Alla fine compare un vegliardo che si siede sopra un trono con vampe di fuoco, e ruote infuocate. Tutto è fuoco attorno a lui. Il profeta lo descrive come un essere umano, dalla veste candida come la neve ed i capelli candidi come la lana. È la rappresentazione di Dio con i simboli espressivi della sua eternità (i capelli candidi), la trascendenza (la veste come la neve), la supremazia sull’intero universo (il fiume di fuoco) e la sua maestà (il numero enorme dei suoi servi). Appare poi uno simile ad un figlio d’uomo al quale sono conferiti onore, potere e gloria. Il tratto glorioso delle visioni viene posto nella liturgia odierna in correlazione con la festa della Trasfigurazione di Gesù, dove il viso, le vesti e la teofania richiamano la visione del profeta. Si deve a S. Agostino l’interpretazione della veste candida con la quale è simboleggiata la Chiesa. Si tratta della prefigurazione della maestà e della gloria di Dio manifestata nel suo Figlio nel mistero della risurrezione, una anticipazione di ciò che è il Paradiso. P. Angelo Sardone

L’Anno santo ieri ed oggi

«Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé; esso sarà per voi santo» (Lv 25,11-12). Il Libro del Levitico nella sezione contrassegnata come “legge di santità”, riporta indicazioni e prescrizioni circa gli anni santi, distinguendoli in «sabbatico» e «anno del giubileo». In particolare quest’ultimo si diceva tale perché era annunziato dal suono di un corno (jobel). Cadeva ogni 50 anni e si concretizzava come anno di liberazione per tutta la terra: ciascuno doveva tornare alla propria terra, alla sua famiglia. In questo anno particolare, dichiarato santo non si doveva coltivare né fare potature e vendemmie. La raccolta per il nutrimento consisteva in tutto ciò che la terra produceva spontaneamente nei campi. Tutto questo si fondava su un’antica concezione: Jahwé era il vero proprietario della terra e gli Israeliti, gli affittuari. Era bandito il monopolio terriero. Questa tradizione è passata poi nella prassi della Chiesa cattolica con un significato più profondo che implica il perdono generale, l’indulgenza per tutti. Il primo Giubileo fu indetto nel 1300 da Bonifacio VIII che fissò la scadenza ogni 100 anni. Poi si passò a 50 anni. Attualmente il giubileo cade ogni 25 anni e si dice «Anno Santo», ordinario e straordinario, quando è celebrato regolarmente o in occasione di particolari ricorrenze. La sua durata è di un anno. L’inizio è determinato dall’apertura delle porte sante delle quattro basiliche maggiori di Roma, S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore e S. Paolo e si conclude con la muratura delle stesse porte sante fino al successivo anno santo. Si caratterizza come anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, anno della riconciliazione tra i contendenti, della conversione e della penitenza sacramentale, della solidarietà, della speranza. Di straordinaria risonanza mediatica e celebrativa fu quello del 2000, in occasione dei due millenni dalla venuta di Cristo in terra, con la presenza di S. Giovanni Paolo II. È in preparazione il giubileo del 2025 dal tema «Peregrinantes in Spem», peregrinanti nella speranza. Oggi è la memoria liturgica facoltativa della «Madonna della neve», per il prodigio della nevicata d’estate a Roma del 352 sul colle Esquilino e la successiva costruzione della basilica di S. Maria Maggiore. P. Angelo Sardone

La follia del santo Curato d’Ars

«Il sacerdote eleverà il covone davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote lo eleverà il giorno dopo il sabato» (Lv 23,10-11). Il Il terzo libro della Bibbia, il Levitico, prende il nome da uno dei figli di Giacobbe, Levi, capostipite della omonima tribù sacerdotale e contiene le diverse leggi che regolano i sacrifici, l’istituzione del sacerdozio, le offerte e norme votive. In particolare il rituale delle feste dell’anno prevede l’offerta del primo covone, primizia del raccolto, fatta al sacerdote il quale lo agita davanti al Signore perché sia propizio al popolo. Il rito si perpetuerà nella celebrazione cristiana della Eucaristia che avverrà particolarmente il giorno dopo il sabato, cioè la domenica. Il sacerdote presenta ogni giorno le offerte del popolo di Dio nella S. Messa, le stesse che col miracolo della transustanziazione, sono trasformate in corpo e sangue di Cristo. Questo, ha fatto per oltre quarant’anni S. Giovanni Maria Vianney (1786-1859), meglio conosciuto come «il santo Curato d’Ars», alternando la Celebrazione eucaristica all’amministrazione del Sacramento della Penitenza ed alla catechesi, senza alcun risparmio. Pur essendo debole negli studi, ebbe accesso al sacerdozio per la tenacia e la fiducia dell’abate Balley che credeva in lui, lo aveva avviato al seminario e poi accolto quando fu sospeso dagli studi. Inviato ad Ars-en-Dombes, villaggio di quasi trecento abitanti, con una situazione religiosa assolutamente precaria, si dedicò interamente all’evangelizzazione, rifulgendo per un’austera e straordinaria penitenza e vita interiore, con grande bontà e carità, «umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente» (Benedetto XVI). La fama della sua santità, costruita con grandi mortificazioni e lotte continue col demonio, superò ogni limite e raggiunse ogni parte dell’Europa. Il suo vescovo augurava a tutto il suo clero «un granellino di quella medesima follia», la sua follia d’amore. Potessimo noi sacerdoti praticare oggi la stessa eroica follia! P. Angelo Sardone