La croce esaltata

«O croce santa, segno di vittoria e di salvezza, guidaci al trionfo nella gloria di Cristo» (Antifona liturgica). Si celebra oggi la festa dell’Esaltazione della Croce di Cristo, storicamente legata alla costruzione della basilica del santo Sepolcro a Gerusalemme ad opera di Costantino, la cui dedicazione avvenne il 13 settembre 335 e l’indomani vi fu l’ostentazione di quel che rimaneva della croce. Essa è strumento e simbolo di salvezza, talamo, trono ed altare come canta il prefazio della Messa; è «espressione del trionfo sul potere delle tenebre, segno di benedizione sia quando viene tracciata su di sé che su altre persone e oggetti» (Direttorio pietà popolare). La croce è il simbolo cristiano più diffuso e noto in tutto il mondo: richiama il supplizio inflitto a Gesù Cristo, l’opera «più meravigliosa di ogni miracolo di Cristo» (S. Giovanni Damasceno). Platone nella sua opera sullo Stato la «Politeia», prova ad immaginare quale destino sarebbe riservato in questo mondo al giusto perfetto e giunge alla conclusione che egli sarebbe stato crocifisso. Gesù Cristo è Il crocifisso per eccellenza, «Scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani», manifestazione della più grande sua impotenza, l’amore fino alla morte. La croce è l’atto finale di un Dio che stupisce col suo nuovo stile di amare (Benedetto XVI), trono dal quale domina da vero re e al quale attira tutti. S. Annibale Di Francia riferisce alla croce parole mirabili: «È un libro nel quale possono leggere ed imparare i dotti e gl’ignoranti, i grandi e i piccoli, i giusti e i peccatori. … libro aperto per tutti, nel quale si può apprendere la più sublime teologia degli attributi di Dio, la sua potenza, la sua misericordia, la sua giustizia, la sua carità; libro nel quale a caratteri di sangue non terreno, sta scritto e spiegato il mistero dell’amore eterno di un Dio verso gli uomini. … in esso si sono formati i più grandi santi della Chiesa, e senza di esso è impossibile comprendere e praticare virtù alcuna». Verità sapiente e perenne della croce, unica nostra speranza. P. Angelo Sardone

Il Santissimo Nome di Maria

«Anna si purificò, porse il seno alla bimba e la chiamò Maria» (PdG, V). Così il testo apocrifo denominato «Protoevangelo di Giacomo», annota, dopo la nascita da Anna moglie di Gioacchino, l’imposizione del nome Maria dato alla bambina tanto desiderata. È il tratto più significativo della «bibbia che non fu scritta da Dio», come recita una nota raccolta degli Apocrifi, che si riferisce a Maria la Madre di Gesù, della quale oggi si celebra il Nome santissimo. La devozione, molto popolare, è coeva a quella del nome di Gesù e fu introdotta in ambito liturgico alcuni secoli fa. Il nome Maria richiama diverse etimologie che restano comunque probabili e che vanno da Myriam, «amarezza» da una radice ebraica, a «maestra e signora del mare», messa in parallelo con la sorella di Mosè ed il passaggio del mar Rosso; a «stella del mare»: in lei, mare di grazia, sono confluite tutte le grazie degli angeli e dei santi. Ed infine, «altezza», indicando il Padre e Colei che ha generato il Figlio. Il Nuovo Testamento in maniera succinta riporta le vicende di Maria. Anche il Corano, testo sacro dei Musulmani la cita 70 volte. Maria fu dato come primo nome a S. Annibale Di Francia e ciò fu per lui come un segno di predestinazione a coltivarne un’autentica e vera devozione. «Beato e mille volte beato chi ha la fortuna di portare un sì augusto Nome, perchè Maria gli darà grazie speciali; io esorto tutti i padri e le madri di famiglia ad imporre ai loro figliuoli questo Nome», soleva ripetere ai fedeli, ed ancora «Al tuo Nome di Maria, il demonio fugge via, nell’abisso si confina». Auguri a tutte coloro che portano questo bellissimo nome, perché sull’esempio di Maria di Nazaret siano docili all’azione dello Spirito e testimonino la scelta del Padre nell’amore del Figlio. P. Angelo Sardone

La preghiera dell’evangelizzatore

«Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà» (Col 1,9). La bella notizia dell’adesione alla fede cristiana con il corredo della speranza e del vicendevole amore, fa sgorgare nel cuore di Paolo la preghiera assidua di sostegno ai Colossesi perché si distinguano nella pienezza della loro azione formativa ed apostolica attingendo direttamente da Dio e dalla conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza ed intelligenza. Questo dato teorico deve necessariamente sfociare nella pratica che si traduce innanzitutto nel piacere a Dio e nel portare frutto in ogni opera buona. La potenza stessa della gloria di Dio rende forti e, di conseguenza, perseveranti e magnanimi in tutto. L’attenzione e la preoccupazione dell’Apostolo nei confronti di questi cristiani è il loro effettivo avanzamento nel cammino di fede che può e deve essere sostenuto ogni giorno dalla preghiera, perché possa portare concretamente ad una conoscenza vera della volontà di Dio. È molto bello considerare come l’atteggiamento dell’evangelizzatore sia entusiasta ed allo stesso tempo realista, notando la difficoltà per i cristiani nella società di allora come di oggi, di avanzare nel cammino nella pienezza dell’azione dello Spirito ed in corrispondenza analoga alla Grazia. Tante volte purtroppo le preoccupazioni e gli interessi più vivi dei ministri, con malcelata compiacenza dei cristiani stessi superficiali e languidi, sono rivolti alla dimensione meramente psicologica e si rischia di trascurare nel cammino formativo il riferimento fermo e deciso all’accoglienza della Grazia che giunge attraverso i sacramenti ed il conseguente impegno di ciascuno nella seria, se pure difficile perseveranza. P. Angelo Sardone

Epafra, fedele collaboratore

«Egli è presso di voi un fedele ministro di Cristo e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito» (Col 1,8). La lettera di S. Paolo agli abitanti di Colossi, molto probabilmente scritta da Roma nel corso della sua prigionia tra il 61 ed il 63, si colloca con quella agli Efesini ed a Filemone, in un gruppo detto omogeneo. Da questa città che Paolo non aveva evangelizzato personalmente è giunto Epafra, suo compagno di ministero e di prigionia, evangelizzatore a Colossi, e gli ha riferito informazioni positive della comunità ed in particolare l’amore nei confronti del Signore, tra loro e verso Paolo, nello Spirito Santo. All’iniziale rendimento di grazie a Dio che sottolinea la presenza delle tre virtù teologali, forza stessa della comunità, segue un bell’elogio di Epafra che lo supplisce nell’opera apostolica come autentico fondatore della chiesa colossese. Il suo nome, forma abbreviata di Epafrodito, significa «altamente desiderabile». Si sa ben poco della sua vita, ma si comprende bene da quello che dice Paolo, che amava la Chiesa nella quale è un «fedele ministro di Cristo» per gli abitanti di Colossi. È molto importante questa sottolineatura che determina la caratteristica dell’uomo di Dio chiamato a vivere la fedeltà come esigenza della sua vocazione. Come nell’amore coniugale questa caratteristica è essenziale, anche nella vocazione sacerdotale e religiosa è esigita per la natura stessa di questo amore particolare e l’efficacia della sua azione apostolica. In un tempo come quello attuale nel quale la fedeltà ad ogni livello e vocazione è diventata fluida se non opzionale, una testimonianza di questo genere elogiata dall’Apostolo, fa molto riflettere e diviene sprone efficace ed emulativo soprattutto per noi sacerdoti ed anime consacrate. P. Angelo Sardone

La santa dei poveri più poveri

«Non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,6). Dinanzi al mistero della venuta di Cristo, aldilà di tutte le considerazioni e le attese antiche e moderne oggetto di preoccupazioni data l’imminenza soprattutto allo scoccare dei millenni, ciò che rimane da fare sono la vigilanza e la sobrietà. Il dato biblico certo enunziato da S. Paolo è che l’avvento del Signore sarà come quello di un ladro di notte. Occorre dunque non dormire rassegnandosi ad un cieco e fatale destino ma restare svegli ed operare il bene finché c’è la luce sorretti dalla fede e dalla speranza cristiana. Nella continua vigilanza e mossa dalla sobrietà della vita servendo i poveri più poveri, si è mossa l’intera esistenza umana di Agnes Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), nata in Macedonia da una famiglia albanese e nota in tutto il mondo come una delle donne di carità più in vista di tutti i tempi. Il suo percorso vocazionale la fa approdare inizialmente nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto, destinata il 1929 in India, nella zona orientale di Calcutta. L’impulso della carità alla vista di tanta miseria la spinge a mettere in pratica come una seconda chiamata per poter condividere la sua vita con i poveri ed insieme con alcune giovani il 1950 fonda la Congregazione delle Missionarie della Carità, che immediatamente si spande in quasi tutto il mondo. La sua fisionomia di donna esile e minuta piegata dalla fatica e la luce del suo sorriso, riflesso della sua carità non tradiscono la sua reale identità di donna attiva e contemplativa, determinata e concreta, vigilante e sobria. L’attualità del suo messaggio richiama l’attenzione sempre nuova verso i poveri più poveri, i dimenticati e non amati che si trovano in ogni parte del mondo, a cominciare dai nostri contesti opulenti e spesso dormienti verso simili necessità. P. Angelo Sardone

Santa Rosalia, la “santuzza”

«Noi verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore» (1Ts 4,17). Il problema dei morti era vivo presso la comunità cristiana di Tessalonica e destava afflizioni diverse. S. Paolo afferma che coloro che sono morti, per mezzo di Gesù Dio li condurrà con sé. Inoltre, resuscitando, essi saranno raggiunti da noi e condotti all’incontro col Signore ed al giudizio, inizio del nuovo ed eterno regno. Oggi si fa memoria di S. Rosalia, una vergine eremita del XII secolo, patrona della città di Palermo. Non ci sono notizie biografiche certe e tante sono avvolte nella leggenda, anche se sono stati rinvenuti documenti dai quali risulta che già dal 1196 veniva chiamata Santa Rosalia. Nobile di nascita, in un periodo nel quale era stato inaugurato in Sicilia da parte dei Normanni il rinnovamento cristiano, lasciò gli agi della corte e si ritirò in contemplazione e preghiera in una grotta sul monte Pellegrino, a Palermo, cibandosi del necessario e lì morì il 4 settembre 1160. Nel corso di una terribile epidemia di peste nel 1624, apparve in sogno prima ad una donna ammalata e poi ad un cacciatore, indicando loro il luogo delle sue reliquie e chiedendo di portarle in processione nella città. A seguito del gesto la città fu liberata dal contagio ed i malati guarirono. Tuttora in Sicilia viene invocata come la «santuzza». Il suo nome è composto da due fiori, la rosa ed il giglio (in latino lilium) che indicano allo stesso tempo bellezza e purezza. Auguri a tutte coloro che portano questo bel nome, particolarmente diffuso in Italia e beneficiano della protezione di una santa che ancora oggi attrae pellegrini e devoti. P. Angelo Sardone