I vecchioni smascherati da Daniele

«Uomo invecchiato nel male! Ecco, i tuoi peccati commessi in passato vengono alla luce. La bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore!» (Dn 13,52.56-57). Il libro del profeta Daniele, nel penultimo suo capitolo narra la storia di una donna di rara bellezza, tale Susanna, moglie di Ioakim, a Babilonia nel tempo della deportazione. La comunità ebrea era retta dai giudici che, in quel tempo erano anziani e frequentavano la casa del ricco Ioakim. La bellezza della donna non passava inosservata e nonostante la loro età i due erano presi da una passione veemente che fece loro perdere il lume della ragione, desiderando di possederla e di giacere con lei. L’occasione fu loro propizia un mezzogiorno. Mentre faceva il bagno e le porte del giardino erano chiuse, essi si tirarono fuori da un cespuglio dietro il quale si erano nascosti, rendendole palese il nefasto proposito. Al categorico rifiuto di lei opposero furbescamente la trama di un’inaudita menzogna: avrebbero raccontato pubblicamente di averla vista concedersi ad un giovane che si era introdotto nel giardino. La condanna a morte per lei era così segnata dal responso inesorabile del popolo giudicante che, per un fatto del genere, non tergiversava. Ci volle la sapienza di Daniele, ispirata da Dio, per smascherarli con un giudizio spietato quanto vero e pesanti termini di condanna che non solo rendevano giustizia alla povera timorata da Dio, ma li svergognava, rivelando la tresca nella quale più volte avevano indotto tante donne di Israele con lo stesso marchingegno. Storia di ieri, storia di oggi. “Ne verbum quidem!” Non c’è bisogno di parole per spiegare e per capire! P. Angelo Sardone

V domenica di Quaresima: sintesi liturgica

Dio conclude con la Casa d’Israele e di Giuda la nuova alleanza e scrive sul cuore del popolo la legge che stabilisce il reciproco rapporto di amore col Lui. Consegue una conoscenza profonda di Dio da parte dell’uomo; il perdono dell’iniquità e l’oblìo del peccato del popolo, da parte di Dio. Alcuni Greci, pagani, vogliono vedere Gesù e chiedono la mediazione ad Andrea e Filippo (entrambi i loro nomi sono di origine greca). Segue la Sua diretta manifestazione: è Lui il chicco di grano che cade in terra, muore e porta frutto. La glorificazione che avverrà nel mistero della morte in croce nell’ora stabilita da Dio, è confermata da una voce celeste, simile ad un tuono che risuona: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». Dall’alto della croce, abbandonato completamente in Dio, Cristo attira tutto a sé: dalla sofferenza impara l’obbedienza ed è causa di salvezza per coloro che gli obbediscono. Servizio, sequela ed onore si susseguono e completano in un ritmo pasquale di preghiere e suppliche, grida e lagrime, morte e risurrezione. P. Angelo Sardone

Il giusto

«Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine» (Sap 2,17). Lo sguardo ed il fine della Liturgia nel proporre i testi della celebrazione eucaristica che accompagnano il cammino giornaliero della Quaresima è prospettico. Il punto di riferimento nella preghiera e nella riflessione è Gesù Cristo, come risalta anche dalle pagine bibliche vetero-testamentarie. In esse è tipica la simbologia che spesso fa riferimento al Figlio di Dio nella sua identità di «giusto». Il libro della Sapienza, considerato «deuterocanonico» cioè riconosciuto solo in un secondo tempo come ispirato ed utilizzato probabilmente già da S. Paolo e S. Giovanni e sicuramente dai Padri della Chiesa fin dal II secolo, mette appunto a confronto la sorte dei giusti e degli empi nel corso della vita sulla terra. Il «giusto» che possiede la conoscenza di Dio, è ritenuto d’imbarazzo perchè parla apertamente, rimprovera le trasgressioni. Le reazioni del popolo sono conseguenti: è insopportabile già al vederlo. La verità delle sue parole sarà dimostrata ampiamente alla fine della vita, quando si vedrà se è davvero assistito da Dio. Le tematiche si intercalano con termini analoghi adoperati da Isaia che saranno ancora più espliciti nei giorni prossimi. Il tutto si realizza in pienezza in Cristo e nel mistero della sua passione. La verità delle parole che si adoperano è sempre proporzionata alle opere che si compiono. Nel campo della fede non sono sufficienti se limitate solo ad espressioni verbali. La traduzione pratica, anche in mezzo alle difficoltà, sancisce la verità delle stesse parole portate fin sopra la croce della testimonianza perseverante sino alla fine. P. Angelo Sardone

La consolazione

«Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13). Toni e tematiche proprie dell’Avvento, ritornano in Quaresima con una significativa cadenza liturgica di continuità e pienezza. Il Libro della Consolazione di Isaia che si identifica coi capitoli che vanno dal 40 al 55, il cosiddetto «deuteroisaia» evidenzia la grande misericordia e la compassione che Dio opera verso l’uomo che riconosce il suo peccato e torna a Lui. Dio in un certo senso condivide la sofferenza dell’uomo e gli viene incontro col suo tratto di amore che induce alla conversione: «Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Si entra così nel mistero stesso di Dio che già nella rivelazione a Mosè si era autodefinito «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6 ss.). L’evangelista Luca rileva la predicazione di Gesù come un insegnamento continuo e profondo della misericordia di Dio. S. Paolo aggiunge che Dio è «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Co 1,3) e questo ministero si diffonde nella comunità attraverso l’opera specifica di Cristo, nello Spirito, il «consolatore» per eccellenza.
Sant’Ambrogio definiva la consolazione una vera e propria «arte» che non tutti hanno ma che tutti possono acquisire nella misura in cui incoraggiano, offrono conforto a chi è smarrito, a chi vive la solitudine, a chi è nello sconforto per le sofferenze diverse a livello fisico, psichico ed anche spirituale e sociale. L’esperienza insegna che chi ha sperimentato in prima persona la consolazione che viene da Dio ed anche quella proveniente dagli uomini, è in grado di darla e di condividerla con gli altri. E questo è un vero e proprio ministero di fatto. P. Angelo Sardone

La chiamata alla santità

«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,1). Il terzo dei libri della Bibbia che compongono il Pentateuco, la vasta raccolta attribuita a Mosè e che gli Ebrei chiamano la «Torà», è il Levitico. Consta di 27 capitoli ed ha un carattere prevalentemente legislativo. Spazia dalle leggi del sacrificio all’istituzione del sacerdozio, dalle leggi sulla purità al Codice di santità, religioso e cultuale. Deve il suo nome a Levi, figlio di Giacobbe ed alla sua tribù associata col sacerdozio, ministri del santuario e fedeli a Jahwé. La prima delle prescrizioni morali e cultuali è l’ingiunzione di Dio da comunicare al popolo d’Israele, di essere santi come Dio è santo. Questo termine identifica la divinità, la sua essenza, la sua qualità esclusiva. L’uomo percepisce la gloria che è la manifestazione della santità di Dio. Egli è il «tre volte santo», come proclamato dai Serafini che compongono la corte celeste, il «totalmente altro», espressione coniata il 1917 dal teologo tedesco Rudolf Otto (1869-1937) nell’opera «Il sacro». Le creature umane devono anelare alla santità di Dio che deriva loro da un particolare contatto o unione. La santità si acquisisce e si conserva con l’ascolto e l’osservanza dei comandamenti. Nel cammino della Quaresima il forte richiamo di Dio si consolida con altrettanto richiamo da parte di Cristo, in un itinerario di perfezione e dell’osservanza della legge di Dio. La perfezione di Dio, inavvicinabile e fuori dalla possibilità dell’uomo, viene presentata come una forte provocazione a voler tendere ed anelare a Lui attraverso la pratica dei dieci comandamenti. I «Santi» sono l’esempio concreto di questo principio. P. Angelo Sardone

L’arcobaleno e l’alleanza

«Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future» (Gn 9,12). Il cammino penitenziale della Quaresima è segnato oltre che da avvenimenti particolari, da elementi biblici che promuovono una retta conoscenza e la pratica della fede. Sono princìpi che provengono dall’esperienza dell’antico popolo di Israele che si riverberano nel nuovo popolo, la Chiesa. Uno di essi, importante per la sua entità e le sue conseguenze, è l’alleanza. Si tratta di un criterio giuridico che appartiene a tutti i popoli col quale Jahwé ha voluto configurare il suo rapporto di amore con Israele. L’accadico «beritù» dal quale deriva etimologicamente il termine, significa «catena» ed esprime il legame ed il vincolo col quale Dio si lega alle sue creature. Il primo segno dell’alleanza è costituito nella Bibbia dall’arcobaleno che segue il disastroso ed immane diluvio universale. In questa relazione giuridica e di amore il Signore coinvolge Noè, sopravvissuto insieme con la sua famiglia. Nello stabilire il nuovo ordine del mondo, Dio scende a patti con le sue creature instaurando un’alleanza cosmica con l’intera creazione, con l’uomo ed ogni essere vivente, compresi gli animali. Il segno evidente é l’arcobaleno che, mentre segna la fine della pioggia, la tregua dopo la tempesta, evoca l’alleanza eterna stabilita da Dio con ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra. Il contenuto dell’alleanza vede Dio impegnato con l’uomo a non distruggerlo più con le acque del diluvio, né tanto meno a permettere che alcun altro diluvio distrugga l’intera terra. Questi elementi si evolveranno poi nel corso della storia sacra con Abramo e con Mosè e saranno recepiti da Cristo nella nuova alleanza col suo sangue. P. Angelo Sardone

La condivisione e l’accoglienza

«Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa» (Is 58,11). Il digiuno voluto dal Signore più che una pratica rituale consiste nella condivisione del pane materiale e spirituale con chi è nel bisogno, nella accoglienza in casa di chi è nell’indigenza, nel ricoprire di abiti e di dignità chi ne è privo, senza distogliere gli occhi da chi è più vicino. Molte volte, infatti, nella tensione dello sguardo oltre l‘orizzonte si perdono di vista persone e situazioni che sono sotto il naso. La filantropia o una discutibile visuale di carità spesso allarga l’orizzonte ai confini della terra e rende presbiti nei confronti di se stessi e degli altri. Le condizioni divine enunciate dal profeta Isaia sono precise e chiare: il Signore guida, sazia e rinvigorisce corpo ed anima se si elimina l’oppressione, se si smette di puntare il dito verso le colpe e le responsabilità altrui, se si smette di parlare sempre male degli altri, se si condivide il pane con chi ha fame, se si sazia chi è digiuno. Non si tratta dunque di semplici concetti ma di opere concrete che tutti possono compiere. Secondo gli insegnamenti del Magistero della Chiesa nella penitenza vi è un intimo rapporto e conseguenza tra «l’atto esterno e la conversione interiore, la preghiera e le opere di carità». A noi sacerdoti spetta il compito di inculcare, a preferenza di altre, qualche speciale forma di penitenza perché si dia una testimonianza veritiera di carità verso fratelli e sorelle che soffrono nella povertà e nella fame, e che non sono in nazioni e continenti lontani da noi, ma forse vivono nello stesso pianerottolo di casa, nel proprio quartiere o sono presenti nella stessa comunità parrocchiale. Così si può avere la garanzia di un percorso autentico di conversione e penitenza. P. Angelo Sardone

Il senso del digiuno

«Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati» (Is 58,1). Il capitolo 58 del profeta Isaia viene generalmente indicato come «oracolo del digiuno accetto a Dio». Contiene, infatti, prescrizioni divine emanate in forma perentoria, riguardo al senso ed all’efficacia del vero digiuno. Il compito di ricordarlo è affidato al profeta, con una sequenza incalzante e responsabile di verbi: gridare a squarciagola senza avere ritegno per alcuno perché tutti ascoltino; alzare la voce con l’intensità del suono del corno perché il richiamo sia espanso; dichiarare con coraggio e verità a tutto il popolo la situazione particolare dei suoi peccati e dei suoi delitti. Memori degli insegnamenti dei grandi profeti, le pratiche religiose devono essere compiute in maniera interiore. Tra questi in particolare il digiuno che la Legge prescriveva solo per la festa dell’espiazione. Più che una pratica ascetica era il segno del dolore collegato a lamenti nelle cerimonie di lutto, ma anche segno di penitenza e di implorazione della misericordia divina. In situazioni particolari di necessità o di eventi, esso accompagnava la preghiera. La sua durata era di un giorno, dall’alba al tramonto, ed era totale. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno nel mercoledì delle Ceneri e nel venerdì della Passione e Morte di Gesù Cristo, inquadrandolo in un vero e proprio «esercizio» di liberazione volontaria dai bisogni della vita terrena per riscoprire la bellezza e la necessità della vita che viene dal cielo. A noi sacerdoti, il compito di ricordarlo coi toni indicati dalla Parola di Dio e con la fermezza che salvaguarda la verità e la coerenza della fede. P. Angelo Sardone

La lingua di S. Antonio di Padova

«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori. Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua» (Sal 1,1-3). Con questa beatitudine si apre il notissimo libretto del Vecchio Testamento detto «Libro dei Salmi», 150 composizioni letterarie e teologiche di preghiera, attribuite al re Davide, divenute liturgiche perchè scelte dalla Chiesa come sua preghiera ufficiale. Le primissime espressioni si addicono particolarmente a S. Antonio di Padova del quale oggi si ricorda la traslazione delle reliquie nell’attuale sede della Cappella dell’Arca (15 febbraio 1350), volgarmente detta della Sacra Lingua per il fatto che, nella ricognizione dell’8 aprile 1263, presente il Ministro Generale dell’Ordine francescano S. Bonaventura da Bagnoregio, fu ritrovata incorrotta, flessibile, viva e rosseggiante, come di chi non fosse morto. Prendendola tra le mani S. Bonaventura esclamò: «O Lingua benedetta che sempre benedicesti il Signore, e Lui facesti benedire dagli altri, ora si vede all’evidenza di quanto merito tu fosti presso Dio!». Con questo prodigio Dio ha premiato uno dei più grandi studiosi ed annunziatori della sua Parola, mettendo insieme la preghiera contemplativa e la frenetica azione pastorale. «Le labbra del sacerdote, infatti, devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore» (Ml 2,7). S. Annibale M. Di Francia, grande devoto antoniano e divulgatore del suo culto, oltre la festa del santo padovano volle nei suoi Istituti quella della Sacra Lingua, «tuttora vivida e quasi parlante» che loda Dio, lo ringrazia, lo prega incessantemente. Quanto bene può fare la lingua se adoperata in maniera adeguata; quanto male può farne, invece, usata male o prestata al chiacchiericcio, all’insulto, alla bestemmia e al turpiloquio. P. Angelo Sardone