Il giusto

«Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine» (Sap 2,17). Lo sguardo ed il fine della Liturgia nel proporre i testi della celebrazione eucaristica che accompagnano il cammino giornaliero della Quaresima è prospettico. Il punto di riferimento nella preghiera e nella riflessione è Gesù Cristo, come risalta anche dalle pagine bibliche vetero-testamentarie. In esse è tipica la simbologia che spesso fa riferimento al Figlio di Dio nella sua identità di «giusto». Il libro della Sapienza, considerato «deuterocanonico» cioè riconosciuto solo in un secondo tempo come ispirato ed utilizzato probabilmente già da S. Paolo e S. Giovanni e sicuramente dai Padri della Chiesa fin dal II secolo, mette appunto a confronto la sorte dei giusti e degli empi nel corso della vita sulla terra. Il «giusto» che possiede la conoscenza di Dio, è ritenuto d’imbarazzo perchè parla apertamente, rimprovera le trasgressioni. Le reazioni del popolo sono conseguenti: è insopportabile già al vederlo. La verità delle sue parole sarà dimostrata ampiamente alla fine della vita, quando si vedrà se è davvero assistito da Dio. Le tematiche si intercalano con termini analoghi adoperati da Isaia che saranno ancora più espliciti nei giorni prossimi. Il tutto si realizza in pienezza in Cristo e nel mistero della sua passione. La verità delle parole che si adoperano è sempre proporzionata alle opere che si compiono. Nel campo della fede non sono sufficienti se limitate solo ad espressioni verbali. La traduzione pratica, anche in mezzo alle difficoltà, sancisce la verità delle stesse parole portate fin sopra la croce della testimonianza perseverante sino alla fine. P. Angelo Sardone

La consolazione

«Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13). Toni e tematiche proprie dell’Avvento, ritornano in Quaresima con una significativa cadenza liturgica di continuità e pienezza. Il Libro della Consolazione di Isaia che si identifica coi capitoli che vanno dal 40 al 55, il cosiddetto «deuteroisaia» evidenzia la grande misericordia e la compassione che Dio opera verso l’uomo che riconosce il suo peccato e torna a Lui. Dio in un certo senso condivide la sofferenza dell’uomo e gli viene incontro col suo tratto di amore che induce alla conversione: «Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Si entra così nel mistero stesso di Dio che già nella rivelazione a Mosè si era autodefinito «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6 ss.). L’evangelista Luca rileva la predicazione di Gesù come un insegnamento continuo e profondo della misericordia di Dio. S. Paolo aggiunge che Dio è «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Co 1,3) e questo ministero si diffonde nella comunità attraverso l’opera specifica di Cristo, nello Spirito, il «consolatore» per eccellenza.
Sant’Ambrogio definiva la consolazione una vera e propria «arte» che non tutti hanno ma che tutti possono acquisire nella misura in cui incoraggiano, offrono conforto a chi è smarrito, a chi vive la solitudine, a chi è nello sconforto per le sofferenze diverse a livello fisico, psichico ed anche spirituale e sociale. L’esperienza insegna che chi ha sperimentato in prima persona la consolazione che viene da Dio ed anche quella proveniente dagli uomini, è in grado di darla e di condividerla con gli altri. E questo è un vero e proprio ministero di fatto. P. Angelo Sardone

La chiamata alla santità

«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,1). Il terzo dei libri della Bibbia che compongono il Pentateuco, la vasta raccolta attribuita a Mosè e che gli Ebrei chiamano la «Torà», è il Levitico. Consta di 27 capitoli ed ha un carattere prevalentemente legislativo. Spazia dalle leggi del sacrificio all’istituzione del sacerdozio, dalle leggi sulla purità al Codice di santità, religioso e cultuale. Deve il suo nome a Levi, figlio di Giacobbe ed alla sua tribù associata col sacerdozio, ministri del santuario e fedeli a Jahwé. La prima delle prescrizioni morali e cultuali è l’ingiunzione di Dio da comunicare al popolo d’Israele, di essere santi come Dio è santo. Questo termine identifica la divinità, la sua essenza, la sua qualità esclusiva. L’uomo percepisce la gloria che è la manifestazione della santità di Dio. Egli è il «tre volte santo», come proclamato dai Serafini che compongono la corte celeste, il «totalmente altro», espressione coniata il 1917 dal teologo tedesco Rudolf Otto (1869-1937) nell’opera «Il sacro». Le creature umane devono anelare alla santità di Dio che deriva loro da un particolare contatto o unione. La santità si acquisisce e si conserva con l’ascolto e l’osservanza dei comandamenti. Nel cammino della Quaresima il forte richiamo di Dio si consolida con altrettanto richiamo da parte di Cristo, in un itinerario di perfezione e dell’osservanza della legge di Dio. La perfezione di Dio, inavvicinabile e fuori dalla possibilità dell’uomo, viene presentata come una forte provocazione a voler tendere ed anelare a Lui attraverso la pratica dei dieci comandamenti. I «Santi» sono l’esempio concreto di questo principio. P. Angelo Sardone

L’arcobaleno e l’alleanza

«Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future» (Gn 9,12). Il cammino penitenziale della Quaresima è segnato oltre che da avvenimenti particolari, da elementi biblici che promuovono una retta conoscenza e la pratica della fede. Sono princìpi che provengono dall’esperienza dell’antico popolo di Israele che si riverberano nel nuovo popolo, la Chiesa. Uno di essi, importante per la sua entità e le sue conseguenze, è l’alleanza. Si tratta di un criterio giuridico che appartiene a tutti i popoli col quale Jahwé ha voluto configurare il suo rapporto di amore con Israele. L’accadico «beritù» dal quale deriva etimologicamente il termine, significa «catena» ed esprime il legame ed il vincolo col quale Dio si lega alle sue creature. Il primo segno dell’alleanza è costituito nella Bibbia dall’arcobaleno che segue il disastroso ed immane diluvio universale. In questa relazione giuridica e di amore il Signore coinvolge Noè, sopravvissuto insieme con la sua famiglia. Nello stabilire il nuovo ordine del mondo, Dio scende a patti con le sue creature instaurando un’alleanza cosmica con l’intera creazione, con l’uomo ed ogni essere vivente, compresi gli animali. Il segno evidente é l’arcobaleno che, mentre segna la fine della pioggia, la tregua dopo la tempesta, evoca l’alleanza eterna stabilita da Dio con ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra. Il contenuto dell’alleanza vede Dio impegnato con l’uomo a non distruggerlo più con le acque del diluvio, né tanto meno a permettere che alcun altro diluvio distrugga l’intera terra. Questi elementi si evolveranno poi nel corso della storia sacra con Abramo e con Mosè e saranno recepiti da Cristo nella nuova alleanza col suo sangue. P. Angelo Sardone

La condivisione e l’accoglienza

«Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa» (Is 58,11). Il digiuno voluto dal Signore più che una pratica rituale consiste nella condivisione del pane materiale e spirituale con chi è nel bisogno, nella accoglienza in casa di chi è nell’indigenza, nel ricoprire di abiti e di dignità chi ne è privo, senza distogliere gli occhi da chi è più vicino. Molte volte, infatti, nella tensione dello sguardo oltre l‘orizzonte si perdono di vista persone e situazioni che sono sotto il naso. La filantropia o una discutibile visuale di carità spesso allarga l’orizzonte ai confini della terra e rende presbiti nei confronti di se stessi e degli altri. Le condizioni divine enunciate dal profeta Isaia sono precise e chiare: il Signore guida, sazia e rinvigorisce corpo ed anima se si elimina l’oppressione, se si smette di puntare il dito verso le colpe e le responsabilità altrui, se si smette di parlare sempre male degli altri, se si condivide il pane con chi ha fame, se si sazia chi è digiuno. Non si tratta dunque di semplici concetti ma di opere concrete che tutti possono compiere. Secondo gli insegnamenti del Magistero della Chiesa nella penitenza vi è un intimo rapporto e conseguenza tra «l’atto esterno e la conversione interiore, la preghiera e le opere di carità». A noi sacerdoti spetta il compito di inculcare, a preferenza di altre, qualche speciale forma di penitenza perché si dia una testimonianza veritiera di carità verso fratelli e sorelle che soffrono nella povertà e nella fame, e che non sono in nazioni e continenti lontani da noi, ma forse vivono nello stesso pianerottolo di casa, nel proprio quartiere o sono presenti nella stessa comunità parrocchiale. Così si può avere la garanzia di un percorso autentico di conversione e penitenza. P. Angelo Sardone

Il senso del digiuno

«Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati» (Is 58,1). Il capitolo 58 del profeta Isaia viene generalmente indicato come «oracolo del digiuno accetto a Dio». Contiene, infatti, prescrizioni divine emanate in forma perentoria, riguardo al senso ed all’efficacia del vero digiuno. Il compito di ricordarlo è affidato al profeta, con una sequenza incalzante e responsabile di verbi: gridare a squarciagola senza avere ritegno per alcuno perché tutti ascoltino; alzare la voce con l’intensità del suono del corno perché il richiamo sia espanso; dichiarare con coraggio e verità a tutto il popolo la situazione particolare dei suoi peccati e dei suoi delitti. Memori degli insegnamenti dei grandi profeti, le pratiche religiose devono essere compiute in maniera interiore. Tra questi in particolare il digiuno che la Legge prescriveva solo per la festa dell’espiazione. Più che una pratica ascetica era il segno del dolore collegato a lamenti nelle cerimonie di lutto, ma anche segno di penitenza e di implorazione della misericordia divina. In situazioni particolari di necessità o di eventi, esso accompagnava la preghiera. La sua durata era di un giorno, dall’alba al tramonto, ed era totale. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno nel mercoledì delle Ceneri e nel venerdì della Passione e Morte di Gesù Cristo, inquadrandolo in un vero e proprio «esercizio» di liberazione volontaria dai bisogni della vita terrena per riscoprire la bellezza e la necessità della vita che viene dal cielo. A noi sacerdoti, il compito di ricordarlo coi toni indicati dalla Parola di Dio e con la fermezza che salvaguarda la verità e la coerenza della fede. P. Angelo Sardone

La lingua di S. Antonio di Padova

«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori. Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua» (Sal 1,1-3). Con questa beatitudine si apre il notissimo libretto del Vecchio Testamento detto «Libro dei Salmi», 150 composizioni letterarie e teologiche di preghiera, attribuite al re Davide, divenute liturgiche perchè scelte dalla Chiesa come sua preghiera ufficiale. Le primissime espressioni si addicono particolarmente a S. Antonio di Padova del quale oggi si ricorda la traslazione delle reliquie nell’attuale sede della Cappella dell’Arca (15 febbraio 1350), volgarmente detta della Sacra Lingua per il fatto che, nella ricognizione dell’8 aprile 1263, presente il Ministro Generale dell’Ordine francescano S. Bonaventura da Bagnoregio, fu ritrovata incorrotta, flessibile, viva e rosseggiante, come di chi non fosse morto. Prendendola tra le mani S. Bonaventura esclamò: «O Lingua benedetta che sempre benedicesti il Signore, e Lui facesti benedire dagli altri, ora si vede all’evidenza di quanto merito tu fosti presso Dio!». Con questo prodigio Dio ha premiato uno dei più grandi studiosi ed annunziatori della sua Parola, mettendo insieme la preghiera contemplativa e la frenetica azione pastorale. «Le labbra del sacerdote, infatti, devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore» (Ml 2,7). S. Annibale M. Di Francia, grande devoto antoniano e divulgatore del suo culto, oltre la festa del santo padovano volle nei suoi Istituti quella della Sacra Lingua, «tuttora vivida e quasi parlante» che loda Dio, lo ringrazia, lo prega incessantemente. Quanto bene può fare la lingua se adoperata in maniera adeguata; quanto male può farne, invece, usata male o prestata al chiacchiericcio, all’insulto, alla bestemmia e al turpiloquio. P. Angelo Sardone

La Regina di Saba e Salomone

«Beati i tuoi uomini e beati questi tuoi servi, che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza!» (1Re 10,8). Così esclamò, rimasta senza fiato dinanzi alla grandezza di Salomone ed all’organizzazione perfetta della sua reggia, la regina di Saba. Era giunta a Gerusalemme da una delle colonie sabee a nord della penisola arabica, per intessere relazioni commerciali col regno ebreo che controllava le strade maggiori del commercio verso la Siria e l’Egitto. Aveva portato con sé molte ricchezze, cammelli carichi di aromi, pietre preziose e oro per presentare al Re le sue domande. Appagata in tutto quello che aveva chiesto e fortemente impressionata dalla sua sapienza e prosperità, diede a Salomone quanto gli aveva portato. In uno slancio di compiacenza nei confronti del garbato sovrano, pronunziò una benedizione per uomini e servi accreditati al trono in ascolto continuo della sua sapienza. Dinanzi alla vera saggezza si rimane sempre fortemente impressionati, perché essa parla da sé e supera di gran lunga il “sentito dire”. Soprattutto quando la sapienza è accolta come dono di Dio cui si offre la collaborazione intelligente e fattiva del proprio impegno a tradurla nella pratica della vita, essa si proclama da sé e di esprime con le risposte sagge e la nobiltà di confronto e di dialogo. Non è facile trovarsi dinanzi a situazioni di questo genere, ma non è neanche raro! Capita di trovarsi dinanzi ad ignoranti ed arroganti chiusi nelle poche cose che sanno o che hanno e che tengono strette per sé. È davvero un dono di Dio imbattersi in persone che pur nella loro semplicità ed umiltà rivelano grandezze straordinarie di sapere e di arte non comune, acquisiti con serietà e costanza e comunicati con generosità ed autentico spirito di servizio. P. Angelo Sardone

S. Agata, cioè “buona”

«I sacerdoti introdussero l’arca dell’alleanza del Signore al suo posto nel sacrario del tempio, nel Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini» (1Re 8,6). Il progetto di Davide di costruire un tempio al Signore, sventato dalla profezia di Natan che gli riferì che sarebbe stato il Signore stesso a costruire a lui nel suo Discendente il vero tempio, viene attuato da Salomone. Il giovane e saggio re, usufruendo di tutto il materiale possibile tenuto in deposito per l’occorrenza, in sette anni costruì il sontuoso Tempio di Gerusalemme ed in esso, nel Santo dei Santi, insieme con le suppellettili varie trasferì l’Arca dell’Alleanza che conteneva le tavole della legge e rappresentava la presenza di Dio. Gli artefici del trasporto furono i sacerdoti. Il luogo designato era una cella particolare. Il Signore manifestò la sua reale presenza con una grande nube che riempi il tempio. Nella cattedrale di Catania in un’apposita cella della cappella a lei dedicata, sono conservate e custodite le reliquie di S. Agata la nobile vergine martire etnea del III sec. nota in tutto il mondo. Consacrata a Dio nella giovanissima età, ricevé dal vescovo di Catania il segno della sua appartenenza a Dio, un velo rosso. Non valsero le lusinghe e le minacce del proconsole invaghito di lei, né tanto meno le accuse di vilipendio della religione e il processo intentato contro di lei, a fermarla dal proposito di rimanere fedele a Cristo. La tradizione racconta che le furono strappati i seni, condotta al rogo e morì nella cella per le conseguenze delle ustioni. È grande la devozione verso questa invitta santa siciliana, testimoniata dall’esposizione delle sue reliquie e dalla straordinaria partecipazione del popolo di Dio. Auguri a tutte coloro che portano il suo nome che, dal greco, significa «buona, gentile». P. Angelo Sardone