Giuseppe di Egitto

«Io sono Giuseppe, vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Non vi rattristate e non vi crucciate: Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (Gn 45,5). La mancanza di grano nella terra di Canaan costrinse Giacobbe a mandare i suoi figli in Egitto per comprarvene. Il viaggio, la permanenza, la richiesta, assumono tutti i contorni di una sceneggiatura drammatica, soprattutto per il fatto che Giuseppe era stato incaricato della vendita. Sin dal primo impatto con i fratelli, egli li riconobbe e giocò in maniera astuta le sue carte non tanto per umiliarli e per far loro pagare l’oltraggio che aveva ricevuto, ma per farli ravvedere e purificarli da quell’orrendo delitto che avevano compiuto. Il povero padre, infatti, lo credeva sbranato da una bestia feroce, mentre invece in Egitto, per il dono ricevuto da Dio di saper interpretare i sogni e condurre un’amministrazione saggia e matura, Giuseppe dominava senza contrasto alcuno. Accertatosi che il padre era ancora in vita e con lui anche il fratello più piccolo Beniamino, dopo averli forniti di grano li rimandò indietro intimando loro di condurre da lui l’ultimo fratello. Così avvenne. Ancora una volta infierì contro di loro: fece inserire nascostamente in un sacco di grano la sua coppa d’argento ed il denaro che avevano versato per l’acquisto del grano e mentre erano sulla via del ritorno li fece rincorrere accusandoli di essere ingrati e ladri. Alla fine si fece riconoscere. Il tono patetico ed avvincente del racconto tocca qui il suo culmine di emozione e coinvolgimento perché rivela il vero motivo per il quale Giuseppe era stato venduto e finito in Egitto: perché avessero salva la vita. P. Angelo Sardone

Buon compleanno, sant’Annibale!

«Il dì 5 luglio 1851 ad un’ora e mezza di sera, nascita di mio figlio Annibale». Così, nei suoi appunti di famiglia annota il cavaliere Francesco Di Francia, papà di S. Annibale. La casa natia si trovava a Messina nel rione Portalegni, in Via Gesù e Maria delle Trombe, odierna Via San Giovanni Bosco. Il nome, non comune nella sua famiglia, fu imposto dal padre in memoria del marchese Annibale Bonzi di Bologna, suo intimo amico. Era il terzo di quattro figli nato da Anna Toscano dei marchesi di Montanaro, donna di modestia singolarissima, con la quale il cavaliere si era unito in matrimonio il 2 giugno 1847 nella parrocchia di San Lorenzo in Messina. L’anno successivo, il 23 ottobre 1852, il Cav. Francesco morì improvvisamente, lasciando tre figli e la moglie di appena 22 anni, al quinto mese di gravidanza del quarto figlio. Quando quest’ultimo nacque, non potendo prendersene cura, ella fu costretta ad affidare il piccolo Annibale ad una vecchia zia che viveva sola, in una stanza che dava in un atrio cieco, privo di aria e di luce. Della madre ricorderà le lagrime versate mentre lo vegliava nel lettuccio di casa dove era tornato anch’egli contaminato, a seguito della morte della zia per il colera il 1854. Questa triste esperienza di orfano e di segretato suo malgrado in condizioni non affatto consone ad un bambino di 15 mesi, S. Annibale la porterà sempre incisa nel suo cuore e sarà anche la molla che farà scattare dentro il suo cuore e nella mente un amore speciale ed il desiderio di prendersi cura degli orfani e dei bambini abbandonati. Da grande, sacerdote ed educatore, affermerà che «la pena che più tormenta l’orfano e il derelitto è la mancanza di affetto e l’Istituto, per quanto si sforzi di sostituire la famiglia, rimane sempre un surrogato da rendere quanto più conforme alla realtà familiare». Buon compleanno S. Annibale! P. Angelo Sardone

La separazione di Abramo da Lot

«Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra» (Gn 13,8).
Nella sua peregrinazione verso la terra a lui promessa da Dio, Abramo si era fatto carico del nipote, Lot, figlio di suo fratello Aran morto nella terra natale prima ancora di spostarsi verso Carran. A seguito del comando di Dio di lasciare questa terra per inoltrarsi nel cammino e raggiungere quella promessa, il patriarca aveva condotto con se anche il nipote che aveva la sua età, la sua personalità ed i suoi averi. I beni che accompagnavano il loro peregrinare erano fondamentalmente le greggi che costituivano il cespite di sopravvivenza per il latte la lana, la carne, uniti a tende ed altre ricchezze. Più che da loro, qualche controversia era suscitata dai mandriani. Per evitare discordie familiari Abramo, alle soglie della nuova terra, propone al nipote di separarsi invitandolo a scegliere il territorio che desidera e che si profilava davanti ai loro occhi abbastanza ampio. Lot scelse la valle del Giordano, molto ricco di acque. Abramo si stabilì invece alle Querce di Mamre. Una discordia familiare viene immediatamente attutita e risolta con la scelta libera proposta dal più grande, per non andare incontro a divergenze e difficoltà derivanti facilmente dal possesso dei beni e dalla loro amministrazione. La saggezza di Abramo e la scelta di quanto rimaneva, a seguito della scelta del nipote, viene compensata abbondantemente da Dio che gli mostra la vastità del territorio e gli dona la sicurezza di una discendenza grande come la polvere della terra. L’affidamento a Dio ed una intelligente generosità, premia sempre, anche nei contesti odierni, quando sia in famiglia che oltre, si devono fare scelte che apparentemente potrebbero sembrare anche sfavorevoli. P. Angelo Sardone

La benedizione ad Abramo

«Ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione» (Gn 12,2). La chiamata di Abramo alla fede è contrassegnata dalla benedizione di Dio. Essa comunica la vita, la forza e l’autorità. Nel Vecchio Testamento la benedizione è considerata una comunicazione di Dio che è il solo che può benedire. Gli uomini non benedicono se non nel desiderio e nella preghiera perché Dio benedica. L’effetto della benedizione è prima di tutto la fecondità di uomini, animali, raccolti. Furono benedetti i patriarchi a cominciare da Noè ed Abramo. Quest’ultimo diventerà una fonte stessa di benedizione per tutti i popoli che chiedono a Dio di benedirli proprio come ha benedetto Abramo. Quando Dio benedice la benedizione non può essere più ritratta né annullata. Dio, a sua volta, viene benedetto nella preghiera ebraica, soprattutto nei Salmi, che esprimono gratitudine a Lui che è forza e potenza. Nel caso di Abramo la benedizione pronunziata da Jahwé a Canaan nel corso della sua prima comunicazione, è sinonimo di prosperità, potenza, promessa di una grande posterità. Ciò premia il grande atto di fede che il patriarca ha compiuto quando ha rotto i suoi legami terreni ed è partito per un paese sconosciuto. Il nome di Abramo effettivamente diventerà grande nella storia ed in lui si diranno benedette tutte le genti. Nella vita della Chiesa ogni benedizione deve tornare a lode ed esaltazione di Dio ed ordinata al profitto spirituale del suo popolo. Benedetti in Cristo, i cristiani diventano strumento di benedizione per gli altri, quando, depositari della sapienza di Dio si servono delle cose create, in modo che il loro uso porti a cercare, amare e servire fedelmente Dio. P. Angelo Sardone

Le confessioni di Geremia

«Il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere» (Ger 20,11). Le cosiddette «confessioni» del profeta Geremia sono allo stesso tempo drammatiche ed emblematiche. Sono dette così in analogia alle «confessioni» di S. Agostino e non hanno paralleli nella letteratura profetica. Esprimono la relazione profonda con Dio e tutti i risvolti con i suoi contemporanei ai quali egli dirige la Parola di Dio spesso dura, che lo rende oggetto di derisione e di beffe. Terrore, denunzie, inganni, sono all’ordine del giorno, tanto da sfiancare la psiche ed il fisico di un uomo nativamente semplice ed umile. Vittima di persecuzioni e calunnie il profeta confessa, cioè proclama, la sua resa dinanzi a Dio dal quale si sente sedotto quasi con violenza, e dal quale si è lasciato completamente sedurre, affermando fedeltà assoluta e resa, per il fuoco divorante di zelo e di cieca obbedienza che consuma le sue ossa. Nonostante tutto Geremia confessa la sua piena fiducia in Dio e le sue parole diventano un canto di lode e di abbandono che certifica ed esalta la presenza di Dio e la sua vittoria sui nemici. La prova cui è sottoposto si traduce in affidamento della propria causa con la consapevolezza certa di essere liberato ogni volta dalle mani dei malfattori. Questa forte ed inaudita esperienza di coerenza e di fedeltà al Signore, nonostante la ripugnanza naturale dinanzi al ruolo di scomodo porta-parole, lo rende vittorioso, non per suo merito, dinanzi ad ogni avversario. Si tratta di una lezione di vita per tutti, a cominciare da noi presbiteri, chiamati non a facili ed utilitaristici accomodamenti, ma a proclamare nella verità la Parola di Dio e non le nostre limitate vedute, le supposizioni che annacquano il Vangelo e durano quanto l’erba che spunta al mattino ed avvizzisce la sera (Sal 90,6). P. Angelo Sardone

Il precursore di Cristo nella nascita e nella morte

«Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra» (Is 49,2).
Le parole profetiche del secondo carme del servo di Jahwé, sintesi prospettica dell’identità e della missione di Gesù, si addicono perfettamente anche alla missione di S. Giovanni Battista. Figlio di Zaccaria ed Elisabetta, cugina di Maria di Nazaret, Egli è l’unico santo del quale, oltre la Vergine Maria, si celebra il giorno della sua nascita, sei mesi prima del Natale di Gesù. Soprattutto nell’arte pittorica viene indicato come «san Giovannino». Gli epiteti che a lui si riferiscono nel Vangelo sono molteplici: il più grande fra i nati di donna, ultimo profeta del Vecchio Testamento, precursore di Cristo, battezzatore (donde il soprannome Battista). Il suo nome significa «Dio è propizio». Fedele alla missione ricevuta, condusse una vita austera nel deserto nutrendosi di locuste e miele selvatico. Diede inizio quindi alla predicazione della penitenza ed all’amministrazione del battesimo lungo il fiume Giordano, per l’avvento del regno messianico. Quando si presentò anche Gesù, con un certo imbarazzo gli amministrò il battesimo, riconoscendolo come colui che avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Per la coerenza del suo annunzio e la fedeltà alla verità senza compromessi, pur essendo ascoltato con interesse, per via di Erodiade e dello stupido giuramento di Erode a Salomè, fu decapitato nel carcere del Macheronte, sulla riva del Mar Morto. Dolcezza, coerenza, umiltà e fermezza sono le caratteristiche sue proprie che ancora oggi risuonano come modello di vita veramente evangelica. Auguri a tutti coloro, uomini e donne, che portano il suo nome. La protezione di S. Giovanni Battista stimoli sempre più una corretta vita cristiana che obbedisce alle regole del Vangelo e si apre ad una autentica santità. P. Angelo Sardone

Tenerezza e fermezza in S. Paolo

«Il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,30). Le lettere di S. Paolo non sono missive come lo erano e nostre quando scrivevamo con penna e fogli. Sono veri trattati di teologia, scritti ispirati che contengono qua e là anche espressioni profondamente umane ed autobiografiche non espedienti letterali, ma vere e proprie confessioni. Ad un certo punto nella seconda lettera ai Corinti, Paolo apre quello che chiama il «discorso insensato» dove più che le parole, parlano i fatti ed in particolare le sofferenze da lui subite da parte di millantatori di verità diverse dal Vangelo, o contrastate da Giudei rimasti ferrei nella legge di Mosè. Le enunciazioni sono diverse e molto colorite: dalla prigionia alle percosse, dalle flagellazioni alla lapidazione, dai naufragi agli innumerevoli pericoli di mare e di terra, di deserto, di città, fame, sete, digiuno. Oltre tutte queste cose, confessa, il suo assillo quotidiano derivato dallo zelo pastorale: la preoccupazione per tutte le Chiese da lui fondate. Essa era derivata dalla paura delle cadute dei più deboli e dagli scandali cui potevano essere sottoposti i neofiti. Questo gli genera ansia e per questo freme. Si tratta di una confessione straordinaria che dice tutto il suo zelo ardente per l’annunzio del Vangelo e la salvezza delle anime. Noi sacerdoti dobbiamo imparare da lui il vero senso dello zelo autentico delle anime, mettendo da parte situazioni di facile compromesso e di accomodamenti solipsistici o propiziatori di fatue benevolenze che non fanno crescere né il popolo di Dio né tanto meno il presbitero stesso. P. Angelo Sardone

San Luigi Gonzaga

«Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). I motivi ed i vantaggi spirituali della colletta per la comunità di Gerusalemme sono presentati da S. Paolo nel corso della sua seconda lettera ai Corinti, invitandoli alla generosità. Citando probabilmente un detto popolare, eco anche del libro dei Proverbi (22,8), ricorda loro che il raccolto abbondante è in proporzione alla semina. Tutto ciò che viene dato con gioia è ricompensato da Signore col suo amore. In questa logica si colloca la vita e l’opera di S. Luigi Gonzaga (1568-1591) del quale oggi si celebra la memoria. Dalla mamma, del casato nobile di Mantova, imparò ad orientarsi a Dio. L’Eucaristia fece maturare in Lui una forte unione a Gesù. Il resto lo fece la grazia, plasmandolo interiormente e rafforzando gli elementi che gli erano propri: la vivacità, il divertimento, la gioia e soprattutto la carità. Quando aveva appena 16 anni entrò nella Compagnia di Gesù votandosi allo studio, alla preghiera ed all’attenzione verso i poveri e gli ammalati. Durante gli studi di teologia, trovandosi a Roma, subito dopo la siccità e la carestia scoppiò un’epidemia di tifo. Per strada raccolse un malato di peste e ciò gli fu fatale: contagiato dal terribile male, giunse alla fine della vita in maniera molto veloce, pronto e felice per l’incontro con Dio, autentico martire della carità. S. Annibale che lo proponeva ai giovani come patrono, lo definiva giglio, Angelo e modello di illibatezza dell’anima e dei costumi, perchè «sia immacolata la mente, immacolato il cuore, immacolati gli affetti». Auguri a tutti coloro, uomini e donne che ne portano il nome perché rispecchino nella loro vita le sue virtù ed il suo angelico pudore. P. Angelo Sardone

La colletta per Gerusalemme

«Superando le nostre stesse speranze, si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio» (2Cor 8,5). Notoriamente la seconda lettera di Paolo ai Corinti, presenta e documenta la colletta organizzata
per la comunità cristiana di Gerusalemme, i santi, onde invitare i destinatari e con loro tutti quelli che avrebbero letto la lettera, alla generosità. Il resoconto è puntuale e ricco di particolari, anche con l’intento di spronare i cristiani di allora a mettere in pratica la fede accolta col battesimo, con la pratica delle opere buone. Ed a testimonianza di quanto si è fatto e raccolto, cita le Chiese della Macedonia che, nonostante la grave tribolazione soprattutto da parte degli Ebrei che erano influenti in tutta la regione e la povertà nella quale versavano, avevano sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità, dando molto di più di quanto i loro mezzi consentissero. È significativo un passaggio nel quale l’Apostolo confessa la sua positiva confusione dinanzi a quanto essi hanno compiuto nel superare qualunque speranza che egli potesse avere in loro. Si tratta di una loro disposizione interiore nel donarsi a Dio ed anche a Paolo grazie ad un interiore impulso della volontà di Dio. I Macedoni si rivelano autentici pionieri dell’impegno caritativo cristiano. I criteri della carità sono molto diversi da quelli amministrativi soppesati dall’accortezza e programmazione, perché sono pilotati direttamente dal cuore generoso di Dio che incita i fedeli con impulsi interiori, a dare generosamente proprio sull’esempio di Cristo che si è fatto povero per arricchirci della sua povertà. P. Angelo Sardone

Apostoli, collaboratori di Dio

«Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2Cor 6,19). I ministri di Dio sono chiamati a collaborare all’opera di Dio per la salvezza, spendendosi generosamente nel realizzare a pieno il compito ricevuto. La collaborazione avviene con Dio attraverso l’annuncio della sua Parola e l’offerta della grazia, cioè la sua benevolenza. Se non ci si impegna in maniera adeguata si corre il rischio di rendere inefficaci questi doni, e lo stesso ministero viene biasimato. Dinanzi al dono fatto da Dio non c’è tempo per tergiversare: chi lo fa si espone a conseguenze disastrose. Alacrità e vicinanza appartengono non solo ai messaggeri del Vangelo ma anche al popolo di Dio che è chiamato ad accogliere stimoli ed indicazioni. S. Paolo col suo stile deciso e nello stesso tempo amabile, esorta i cristiani ad essere disponibili ad accogliere la grazia in maniera efficace e non vana, tenendo conto che la prima responsabilità dell’evangelizzatore è la fedeltà nella sua trasmissione. Per Dio ogni tempo è favorevole ed ogni giorno può essere per l’uomo il giorno della sua salvezza. Il compito dell’apostolo di ieri e di oggi è quello di non essere scandalo per nessuno per non andare incontro a critiche mordaci, ma di presentarsi come ministro di Dio con la dovuta fermezza in tutte le situazioni della vita, con benevolenza, verità ed amore sincero. D’altronde questo è richiesto da molti del popolo santo di Dio che non si accontentano della retorica ma vogliono testimonianza concreta nelle parole, nei gesti, nei comportamenti, nell’abbigliamento, nella conduzione della propria vita, al contrario di altri superficiali ed emotivi che sono attratti dalla simpatia e dalla leggerezza di altrettanti comportamenti. P. Angelo Sardone