San Martino di Tours

«La Sapienza passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti» (Sap 7,27). I primi amici di Dio sono i Santi, i veri signori del mondo. Essi sono dominati dalla Sapienza di Dio e pervasi dal multiforme spirito «intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, agile, penetrante, senza macchia, schietto, inoffensivo, amante del bene, pronto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, tranquillo, che può tutto e tutto controlla». La ridondanza biblica delle caratteristiche entitarie dello Spirito Santo, sottolinea la stessa potenza di Dio che agisce attraverso i suoi Santi quando, passando in essi, li rende amici e suoi profeti. Esempio vivo di questa Parola è S. Martino di Tours (316-397), uno dei santi più celebri e venerati in Europa. Nato da genitori pagani, ricevé il Battesimo a 20 anni e pur rimanendo nell’esercito nel quale era stato avviato per la carriera militare, cominciò a testimoniare la fede cristiana fatta di rispetto, comprensione, attenzione. Divenne diacono e presbitero sotto la guida di S. Ilario vescovo di Poitiers, e con alcuni suoi discepoli avviò la vita monastica in Francia. Fu acclamato unanimemente vescovo di Tours dai cristiani locali rimasti senza pastore. La sua ardente carità abbracciò tutti gli ambiti della pastorale: la formazione del clero, l’evangelizzazione delle zone rurali, la condivisione con il prossimo più povero. Esempio classico riportato anche nell’arte pittorica è il dono della metà del suo mantello ad un povero intirizzito, sotto le cui spoglie si nascondeva lo stesso Gesù. Non ricusò la fatica fino all’ultimo istante della sua vita, e la sua presenza fece ristabilire la pace in un convento con monaci in subbuglio. Amo questo santo, avendo avuto da Dio il dono di nascere 67 anni fa proprio in questo giorno! P. Angelo Sardone

San Leone papa, detto Magno

«Chi custodisce santamente le cose sante sarà riconosciuto santo» (Sap 6, 10). La logica di Dio è quella dell’incontro, frutto di una ricerca. Dio si lascia trovare da quelli che lo cercano ed esorta i potenti a ricercare la sapienza. Come in altre parti della Scrittura, dove è presentata in differenti forme, la Sapienza afferma che il potere é di origine divina e tutti i sovrani sono servi della regalità di Dio. I potenti saranno esaminati con rigore e soggetti ad una indagine rigorosa. Imparare la sapienza è garanzia per non cadere. Ciò vale per tutti, in campo sociale, civile ed ecclesiastico. Coloro che osservano religiosamente la volontà di Dio e la custodiscono, saranno riconosciuti santi. Dal momento che ogni forma di risposta a Dio, qualunque vocazione del cristiano, è cosa santa perché viene da Dio, la Scrittura esorta a custodirla santamente, a proteggerla da ogni pericolo esterno ed interno, a mirare alla santità, cosa che sarà riconosciuta. La memoria liturgica odierna celebra S. Leone (440-461), uno dei primi papi, dottore della Chiesa, al quale per primo fu attribuito il suffisso “Magno”, cioè grande, che indica la mole del suo operato e la santità della sua vita. Fu un papa energico nell’affrontare le diverse e gravi questioni dottrinali e disciplinari della Chiesa. Risalta particolarmente dai libri di storia il celebre incontro con Attila, re degli Unni, al quale fu inviato dall’imperatore Valentiniano III, a seguito del quale il temerario re desisté dall’invadere l’Italia. L’aver custodito fedelmente le cose sacre affidategli da Dio e dalla Chiesa, gli valse non solo il riconoscimento della santità, ma anche la grandezza stessa nella santità, al pari del leone in mezzo a tutti gli altri animali. P. Angelo Sardone

La Basilica del Papa

«Le loro acque sgorgano dal santuario» (Ez 47,12). La quarta ed ultima parte del libro di Ezechiele, il profeta sacerdote deportato in Babilonia, presenta il nuovo futuro tempio, le prescrizioni per il culto, il fiume che sgorga dal tempio. Il suo ruolo è quello di comunicare alla Casa di Israele quanto ha visto. Nella lunga visione profetica il penultimo capitolo del libro si concentra su una sorgente che sgorga dal tempio e la benedizione che porta al paese la nuova abitazione di Dio in mezzo al suo popolo. Questo testo sarà ripreso da Giovanni evangelista nell’Apocalisse. Il santuario, il nuovo tempio è la sorgente di un’acqua che risana e fa rivivere tutto all’intorno: il pesce è abbondante, gli alberi da frutto sono rigogliosi e danno raccolto ogni mese. La liturgia odierna celebra la Festa del giorno natalizio o Dedicazione della Basilica Lateranense di Roma, costruita per opera dell’imperatore Costantino sul Celio e intitolata al SS.mo Salvatore. Il battistero esterno dedicato a S. Giovanni Battista, le conferì nel tempo il nome di S. Giovanni in Laterano. Quel luogo fu assegnato da Costantino al pontefice come luogo di residenza. Dopo il battistero frutto di un adattamento di alcuni ambienti, allora terme private, fu eretta una grande basilica a cinque navate, la prima delle quattro basiliche maggiori, la più antica e importante di tutto l’Occidente. Essa è la Cattedrale di Roma, “capo e madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’orbe”. Ancora oggi dalla profondità di questo santuario che richiama la centralità della fede cristiana, sgorgano le acque salutari che irrorano di grazia e dissetano di dottrina e di fede il vero tempio di Cristo che siamo noi. P. Angelo Sardone

La sapienza, Dio

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«Dio si fa trovare da quelli che non lo mettono alla prova, e si manifesta a quelli che non diffidano di lui» (Sap 1,2). La sezione biblica nota come didattico-sapienziale, prende il nome da un libro interessante, “Sapienza”, entrato solo in un secondo momento a par parte dei libri canonici, cioè ritenuti ispirati. L’opera, certamente di un ebreo pieno di fede ed ellenizzato che viveva ad Alessandria d’Egitto, impregnato di cultura e mentalità greca, è composta di 19 capitoli ed è scritta in lingua greca. L’autore ricorrendo ad una finzione letteraria fa credere di essere Salomone, il grande e saggio Re di Israele che si rivolge ai suoi colleghi, i giudici della terra. In effetti vuole esortare i Giudei minacciati dai culti pagani dell’ambiente circostante a non tentennare e   presenta Dio col termine di “Sapienza”. Egli si fa trovare da coloro che non lo mettono alla prova e si fidano di Lui. Dio ama l’uomo, è testimone dei suoi sentimenti, conosce i suoi pensieri, ascolta ogni sua parola e punisce il bestemmiatore. Le prime parole del libro presentano la sapienza ed il destino umano invitando a cercare Dio ed a fuggire il peccato, soprattutto nella dinamica degli opposti: giustizia-ingiustizia, morte-immortalità. Chi non segue la giustizia cadrà in “ragioni insensate” e non sarà aperto alla sapienza che scende dall’alto e non abita in chi commette il peccato e ne è schiavo. Ogni sofferenza umana patita dal giusto è ricompensata con l’immortalità. Non tentare Dio e non diffidare di Lui sono criteri sensati per ogni epoca che uniti ad una ricerca fatta col cuore semplice, permette davvero di trovare il Dio di ogni grazia e consolazione. P. Angelo Sardone

Le due vedove

«La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16). La povertà si raccorda con la carestia e la siccità. Il bisogno di pane per vivere si interseca con la richiesta di un lavoro dignitoso col quale si possano esprimere capacità e doni. M quando non piove per lungo tempo, quando la ricerca di una occupazione diviene un assillo quotidiano e sembra che sia inascoltato il grido del povero e sofferente, solo la fede fa percepire l’intervento della Provvidenza di Dio. La Sacra Scrittura ritiene tra le fasce deboli della società le vedove. L’episodio quasi speculare di due di esse, quella di Sarepta di Sidone risalente al ciclo biblico del profeta Elia e quella del Vangelo, sottolineata dalla precisa indicazione di Cristo, nella opulenta e pur povera società di oggi, diventano uno stimolo per una seria riflessione di abbandono fiducioso in Dio e di autentica ed eroica generosità di cui sono dotati gli stessi poveri. Entrambe le vedove sono anonime proprio perché dietro di loro si celano infinite analoghe situazioni di ogni tempo. Il pugno di farina e le poche gocce di olio utili per confezionare l’ultima focaccia e poi morire, come i due spiccioli gettati nel tesoro del tempio, tutto ciò che la vedova evangelica possedeva, sono gli elementi catalizzatori della generosità delle due donne vessate dalla sventura umana della perdita del marito e, nel contempo, della loro straordinaria generosità che manifestano nel dono di tutto ciò che hanno e di tutto ciò che sono. Finché giunse la pioggia la farina e l’odio non vennero meno. L’unico possesso per vivere, al contrario del superfluo tintinnante del denaro dei ricchi, meritò l’elogio di Gesù: ha dato tutto ciò che aveva. Grande insegnamento per la vita di oggi laddove la povertà non è sconfitta e la brama del possesso è continuamente alimentata. P. Angelo Sardone

Priscilla ed Aquila i collaboratori di Paolo

. «Per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato» (Rom 16,4). La lunga ed intensa lettera ai Romani si chiude con una serie di saluti. Non sono semplicemente parte della consuetudine letteraria ed epistolare, con un carattere prevalentemente religioso, ma l’espressione sincera e viva della gratitudine che S. Paolo nutre e manifesta nei confronti di coloro che lo hanno aiutato e sono con lui sulla breccia continua dell’evangelizzazione. Il saluto si sviluppa su tre piani: i più stretti collaboratori, la comunità di Roma invitata a scambiarsi il bacio santo, tutte le altre Chiese. Tra i collaboratori più stretti e fidati Paolo cita l’ebreo Aquila e la romana Priscilla, una coppia di convertiti che vivono reciprocità e grande amore sponsale. Si erano trasferiti a Corinto e, divenuti grandi suoi amici gli avevano offerto un aiuto deciso e rischioso quando era rimasto vittima del tumulto di Efeso. La collaborazione dei laici nell’evangelizzazione accanto ai sacerdoti e ministri è di fondamentale importanza non solo dal punto di vista tecnico ed organizzativo, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano. L’amicizia vera tra il sacerdote ed i suoi fedeli è di capitale importanza per entrambi. Ma deve trattarsi di una amicizia vera, matura, seria, feconda di bene e non di opportunismo e labile simpatia temporanea ed evanescente che presto evapora e non fa ricordare neppure i nomi. Spesso in una società dominata da sentimentalismo sotto mentite spoglie di vicinanza e di collaborazione pastorale si corre questo serio rischio che porta detrimento all’uno ed agli altri. Poi arriva la morte e ci si dimentica facilmente. P. Angelo Sardone

L’unico vanto di Paolo: il bene delle anime

«Questo è il mio vanto in Gesù Cristo nelle cose che riguardano Dio» (Rm 15,17). L’apostolo Paolo fu ministro di Cristo tra le genti col compito di annunciare il vangelo di Cristo, da Gerusalemme fino all’Illiria, perché i pagani divenissero un’offerta gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo. Rispettoso sia degli altri missionari contemporanei che delle popolazioni alle quali essi avevano annunziato il nome di Cristo, si era riservato di non costruire su fondamenti altrui, ma di andare in altri luoghi dove nessuno ancora si era recato. Nutriva infatti il proposito di recarsi in Spagna. Nonostante ciò, ligio al dovere dell’annuncio, aveva voluto ribadire agli abitanti di Roma, presso i quali avrebbe fatto una sosta, alcuni punti della fede perché, come aveva già detto Isaia, «quelli che avevano sentito parlare avrebbero compreso ulteriormente» (Is 52,15). Il suo lavoro apostolico fu essenzialmente quello di mettere in contatto gli uomini con Dio, per le cose degli uomini che riguardano Dio. Il successo in ciò, gli ha già procurato un vanto che gli deriva non tanto dalle sue azioni quanto dall’unione con Cristo, dal quale tutto gli veniva. È interessante come lo stesso autore della Lettera agli Ebrei, tracciando l’identità del sacerdote, lo definirà «costituito in favore degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (Eb 5,1). Questo era ed è l’unico vanto dei ministri di Dio nello sviluppo della loro azione pastorale per la quale offrono la propria vita e, secondo la bontà e la Provvidenza di Dio, raccolgono frutti maturi e significativi. P. Angelo Sardone

Carlo Borroneo, giovane ed energico santo

«Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore» (Rm 14,7-8). L’appartenenza a Cristo costituisce uno dei tratti fondamentali della vita e dell’impegno cristiano ed è espressione concreta della mutua associazione. Nella vita dei cristiani esiste una dicotomia tra i maturi e forti che sono liberi da prescrizioni assillanti ed esterni e da deboli nella fede che legano il proprio modo di agire ad imposizioni che vengono dall’esterno e che talora sono velati di superstizione. In tutto ed in tutti deve prevalere l’unità che non è necessariamente uniformità di vedute, ma si traduce in attenzione, comprensione e rispetto dell’atteggiamento altrui. Maggiormente quando si hanno nella comunità responsabilità derivanti dalla propria vocazione. È il caso di S. Carlo Borromeo (1538-1584), grande pastore della diocesi di Milano, insieme con altri santi, guida della Controriforma cattolica ed animatore del Concilio di Trento. Di corporatura robusta, era alto più di un metro ed ottanta, a poco più di vent’anni da suo zio il papa Pio IV fu nominato suo segretario e cardinale. Mettendo in atto le prescrizioni del Concilio tridentino, ebbe a cuore la formazione del clero e dei fedeli, visitando la vastissima diocesi, fondando seminari, edificando ospizi ed ospedali con le ricchezze della sua famiglia e difendendo l’autonomia delle istituzioni ecclesiastiche. All’unità della diocesi associò l’umiltà della sua vita ed il servizio dei poveri nello spirito e nel corpo, fino all’eroicità nel corso della peste del 1576, quando contrasse la malattia e morì. In lui vita e morte si qualificano «per» il Signore: è questo l’atto maggiore di eroismo cristiano. P. Angelo Sardone

L’unico debito

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8). Il cristiano si distingue per la pratica dell’amore che nasce direttamente da Dio e qualifica la sua vita e le sue azioni. Il comportamento verso gli altri necessita di questo elemento che è il culmine e la sintesi della Legge, di entrambi i Testamenti. L’amore verso gli altri, nella mentalità di Paolo e nella prassi di vita cristiana, è come un debito da pagare a tutti. Da questo dipende poi la vera realizzazione e l’autentica felicità. La legge antica rinnovata e reinterpretata dallo Spirito Santo diventa la legge nuova e si realizza nella sua pienezza. Le prescrizioni contenute nei comandamenti, eco di quanto Gesù stesso aveva insegnato, si risolvono in forma completa nell’amore verso il prossimo. L’amore non fa male, non vuole il male, è il perfetto contrario del male. Nella relazione di amore verso il prossimo viene superata la nozione giuridica del debito che impone al debitore di assolvere una prestazione a favore del creditore nell’ambito del dovere e non della libera volontà di fare. Il vero amore che viene da Dio, lo ha ribadito Gesù Cristo stesso, deve diventare vicendevole e raggiungere la qualità del dono supremo: dare la vita per la persona che si ama. Le norme della vita cristiana esprimono così la natura stessa dell’amore: oblazione, servizio, debito di gratitudine. La catechesi in merito non è mai troppa perché è sempre in agguato il contrario dell’amore: l’egoismo e la ricerca del proprio interesse. P. Angelo Sardone

I defunti: fratelli e sorelle della porta accanto

«Dio asciugherà ogni lacrima; non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apc 21,4). L’annuale Commemorazione dei Fedeli defunti è una singolare espressione liturgica della Chiesa pellegrina nel mondo che ricorda e prega per tutti coloro che hanno concluso il cammino terreno e, attraverso il mistero della morte, sono entrati nella vita senza fine. Ciò che è enigma, oscuro, sorprendente ed inspiegabile mistero, è mutato da Cristo in certezza: la vita non ha fine, è semplicemente trasformata e, per quelli che credono in Lui, vi è la risurrezione nell’ultimo giorno e la vita eterna. La Parola di Dio offre un dato di fede, un elemento essenziale della rivelazione: si crede e si spera fermamente che «come Cristo è veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto» (CCC, 989). La morte, entrata nel mondo per invidia del diavolo e a causa del peccato, condiziona la vita dell’uomo sin dal suo nascere e trova pieno compimento nell’ora ultima quando l’anima che è immortale, staccandosi dal corpo che è di terra e viene affidato alla terra, torna a Dio. A qualunque età ed in qualsiasi condizione di vita, si conclude il pellegrinaggio terreno. Tutto ha fine: gioie e dolori, fatiche e speranze, desideri e delusioni, gloria e sofferenze. Agli occhi di Dio tutto viene livellato. Il destino ultimo della propria vita è stato affidato a ciascun uomo e donna, alla loro autonoma e libera responsabilità di fare il bene o il male, di praticare la giustizia e la verità, di accogliere o rifiutare la legge di Dio e i suoi comandamenti. Dopo la morte tutto appartiene alla misericordia di Dio. Noi aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. P. Angelo Sardone