L’arcobaleno e l’alleanza

«Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future» (Gn 9,12). Il cammino penitenziale della Quaresima è segnato oltre che da avvenimenti particolari, da elementi biblici che promuovono una retta conoscenza e la pratica della fede. Sono princìpi che provengono dall’esperienza dell’antico popolo di Israele che si riverberano nel nuovo popolo, la Chiesa. Uno di essi, importante per la sua entità e le sue conseguenze, è l’alleanza. Si tratta di un criterio giuridico che appartiene a tutti i popoli col quale Jahwé ha voluto configurare il suo rapporto di amore con Israele. L’accadico «beritù» dal quale deriva etimologicamente il termine, significa «catena» ed esprime il legame ed il vincolo col quale Dio si lega alle sue creature. Il primo segno dell’alleanza è costituito nella Bibbia dall’arcobaleno che segue il disastroso ed immane diluvio universale. In questa relazione giuridica e di amore il Signore coinvolge Noè, sopravvissuto insieme con la sua famiglia. Nello stabilire il nuovo ordine del mondo, Dio scende a patti con le sue creature instaurando un’alleanza cosmica con l’intera creazione, con l’uomo ed ogni essere vivente, compresi gli animali. Il segno evidente é l’arcobaleno che, mentre segna la fine della pioggia, la tregua dopo la tempesta, evoca l’alleanza eterna stabilita da Dio con ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra. Il contenuto dell’alleanza vede Dio impegnato con l’uomo a non distruggerlo più con le acque del diluvio, né tanto meno a permettere che alcun altro diluvio distrugga l’intera terra. Questi elementi si evolveranno poi nel corso della storia sacra con Abramo e con Mosè e saranno recepiti da Cristo nella nuova alleanza col suo sangue. P. Angelo Sardone

La condivisione e l’accoglienza

«Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa» (Is 58,11). Il digiuno voluto dal Signore più che una pratica rituale consiste nella condivisione del pane materiale e spirituale con chi è nel bisogno, nella accoglienza in casa di chi è nell’indigenza, nel ricoprire di abiti e di dignità chi ne è privo, senza distogliere gli occhi da chi è più vicino. Molte volte, infatti, nella tensione dello sguardo oltre l‘orizzonte si perdono di vista persone e situazioni che sono sotto il naso. La filantropia o una discutibile visuale di carità spesso allarga l’orizzonte ai confini della terra e rende presbiti nei confronti di se stessi e degli altri. Le condizioni divine enunciate dal profeta Isaia sono precise e chiare: il Signore guida, sazia e rinvigorisce corpo ed anima se si elimina l’oppressione, se si smette di puntare il dito verso le colpe e le responsabilità altrui, se si smette di parlare sempre male degli altri, se si condivide il pane con chi ha fame, se si sazia chi è digiuno. Non si tratta dunque di semplici concetti ma di opere concrete che tutti possono compiere. Secondo gli insegnamenti del Magistero della Chiesa nella penitenza vi è un intimo rapporto e conseguenza tra «l’atto esterno e la conversione interiore, la preghiera e le opere di carità». A noi sacerdoti spetta il compito di inculcare, a preferenza di altre, qualche speciale forma di penitenza perché si dia una testimonianza veritiera di carità verso fratelli e sorelle che soffrono nella povertà e nella fame, e che non sono in nazioni e continenti lontani da noi, ma forse vivono nello stesso pianerottolo di casa, nel proprio quartiere o sono presenti nella stessa comunità parrocchiale. Così si può avere la garanzia di un percorso autentico di conversione e penitenza. P. Angelo Sardone

Il senso del digiuno

«Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati» (Is 58,1). Il capitolo 58 del profeta Isaia viene generalmente indicato come «oracolo del digiuno accetto a Dio». Contiene, infatti, prescrizioni divine emanate in forma perentoria, riguardo al senso ed all’efficacia del vero digiuno. Il compito di ricordarlo è affidato al profeta, con una sequenza incalzante e responsabile di verbi: gridare a squarciagola senza avere ritegno per alcuno perché tutti ascoltino; alzare la voce con l’intensità del suono del corno perché il richiamo sia espanso; dichiarare con coraggio e verità a tutto il popolo la situazione particolare dei suoi peccati e dei suoi delitti. Memori degli insegnamenti dei grandi profeti, le pratiche religiose devono essere compiute in maniera interiore. Tra questi in particolare il digiuno che la Legge prescriveva solo per la festa dell’espiazione. Più che una pratica ascetica era il segno del dolore collegato a lamenti nelle cerimonie di lutto, ma anche segno di penitenza e di implorazione della misericordia divina. In situazioni particolari di necessità o di eventi, esso accompagnava la preghiera. La sua durata era di un giorno, dall’alba al tramonto, ed era totale. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno nel mercoledì delle Ceneri e nel venerdì della Passione e Morte di Gesù Cristo, inquadrandolo in un vero e proprio «esercizio» di liberazione volontaria dai bisogni della vita terrena per riscoprire la bellezza e la necessità della vita che viene dal cielo. A noi sacerdoti, il compito di ricordarlo coi toni indicati dalla Parola di Dio e con la fermezza che salvaguarda la verità e la coerenza della fede. P. Angelo Sardone

La lingua di S. Antonio di Padova

«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori. Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua» (Sal 1,1-3). Con questa beatitudine si apre il notissimo libretto del Vecchio Testamento detto «Libro dei Salmi», 150 composizioni letterarie e teologiche di preghiera, attribuite al re Davide, divenute liturgiche perchè scelte dalla Chiesa come sua preghiera ufficiale. Le primissime espressioni si addicono particolarmente a S. Antonio di Padova del quale oggi si ricorda la traslazione delle reliquie nell’attuale sede della Cappella dell’Arca (15 febbraio 1350), volgarmente detta della Sacra Lingua per il fatto che, nella ricognizione dell’8 aprile 1263, presente il Ministro Generale dell’Ordine francescano S. Bonaventura da Bagnoregio, fu ritrovata incorrotta, flessibile, viva e rosseggiante, come di chi non fosse morto. Prendendola tra le mani S. Bonaventura esclamò: «O Lingua benedetta che sempre benedicesti il Signore, e Lui facesti benedire dagli altri, ora si vede all’evidenza di quanto merito tu fosti presso Dio!». Con questo prodigio Dio ha premiato uno dei più grandi studiosi ed annunziatori della sua Parola, mettendo insieme la preghiera contemplativa e la frenetica azione pastorale. «Le labbra del sacerdote, infatti, devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore» (Ml 2,7). S. Annibale M. Di Francia, grande devoto antoniano e divulgatore del suo culto, oltre la festa del santo padovano volle nei suoi Istituti quella della Sacra Lingua, «tuttora vivida e quasi parlante» che loda Dio, lo ringrazia, lo prega incessantemente. Quanto bene può fare la lingua se adoperata in maniera adeguata; quanto male può farne, invece, usata male o prestata al chiacchiericcio, all’insulto, alla bestemmia e al turpiloquio. P. Angelo Sardone

La Regina di Saba e Salomone

«Beati i tuoi uomini e beati questi tuoi servi, che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza!» (1Re 10,8). Così esclamò, rimasta senza fiato dinanzi alla grandezza di Salomone ed all’organizzazione perfetta della sua reggia, la regina di Saba. Era giunta a Gerusalemme da una delle colonie sabee a nord della penisola arabica, per intessere relazioni commerciali col regno ebreo che controllava le strade maggiori del commercio verso la Siria e l’Egitto. Aveva portato con sé molte ricchezze, cammelli carichi di aromi, pietre preziose e oro per presentare al Re le sue domande. Appagata in tutto quello che aveva chiesto e fortemente impressionata dalla sua sapienza e prosperità, diede a Salomone quanto gli aveva portato. In uno slancio di compiacenza nei confronti del garbato sovrano, pronunziò una benedizione per uomini e servi accreditati al trono in ascolto continuo della sua sapienza. Dinanzi alla vera saggezza si rimane sempre fortemente impressionati, perché essa parla da sé e supera di gran lunga il “sentito dire”. Soprattutto quando la sapienza è accolta come dono di Dio cui si offre la collaborazione intelligente e fattiva del proprio impegno a tradurla nella pratica della vita, essa si proclama da sé e di esprime con le risposte sagge e la nobiltà di confronto e di dialogo. Non è facile trovarsi dinanzi a situazioni di questo genere, ma non è neanche raro! Capita di trovarsi dinanzi ad ignoranti ed arroganti chiusi nelle poche cose che sanno o che hanno e che tengono strette per sé. È davvero un dono di Dio imbattersi in persone che pur nella loro semplicità ed umiltà rivelano grandezze straordinarie di sapere e di arte non comune, acquisiti con serietà e costanza e comunicati con generosità ed autentico spirito di servizio. P. Angelo Sardone

S. Agata, cioè “buona”

«I sacerdoti introdussero l’arca dell’alleanza del Signore al suo posto nel sacrario del tempio, nel Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini» (1Re 8,6). Il progetto di Davide di costruire un tempio al Signore, sventato dalla profezia di Natan che gli riferì che sarebbe stato il Signore stesso a costruire a lui nel suo Discendente il vero tempio, viene attuato da Salomone. Il giovane e saggio re, usufruendo di tutto il materiale possibile tenuto in deposito per l’occorrenza, in sette anni costruì il sontuoso Tempio di Gerusalemme ed in esso, nel Santo dei Santi, insieme con le suppellettili varie trasferì l’Arca dell’Alleanza che conteneva le tavole della legge e rappresentava la presenza di Dio. Gli artefici del trasporto furono i sacerdoti. Il luogo designato era una cella particolare. Il Signore manifestò la sua reale presenza con una grande nube che riempi il tempio. Nella cattedrale di Catania in un’apposita cella della cappella a lei dedicata, sono conservate e custodite le reliquie di S. Agata la nobile vergine martire etnea del III sec. nota in tutto il mondo. Consacrata a Dio nella giovanissima età, ricevé dal vescovo di Catania il segno della sua appartenenza a Dio, un velo rosso. Non valsero le lusinghe e le minacce del proconsole invaghito di lei, né tanto meno le accuse di vilipendio della religione e il processo intentato contro di lei, a fermarla dal proposito di rimanere fedele a Cristo. La tradizione racconta che le furono strappati i seni, condotta al rogo e morì nella cella per le conseguenze delle ustioni. È grande la devozione verso questa invitta santa siciliana, testimoniata dall’esposizione delle sue reliquie e dalla straordinaria partecipazione del popolo di Dio. Auguri a tutte coloro che portano il suo nome che, dal greco, significa «buona, gentile». P. Angelo Sardone

Giobbe il paziente che vede Dio

«I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,6).Uno dei testi più citati del Vecchio Testamento, è il Libro di Giobbe, il capolavoro della letteratura sapienziale. Consiste in 42 capitoli nei quali, al racconto in prosa dei primi e dell’epilogo, si alternano pagine mirabili in poesia, di dialogo e discorsi di Giobbe, dei suoi tre interlocutori, dello stesso Jahwé. Fiumi di inchiostro sono stati adoperati nel corso della storia per commentare questo libro che vede protagonista Giobbe nelle sue disavventure umane, nelle sue profonde riflessioni, nella sua pazienza e nel conclusivo felice epilogo. Appartenente probabilmente all’epoca patriarcale, è considerato dalla Tradizione il grande giusto che rimane fedele a Dio in una prova straordinaria. «Sublime libro! Pieno di grande e magnanimo dolore! Parla con Dio senza superstizione, e con le proprie sciagure senza bassezza!», lo definiva il poeta Ugo Foscolo. Contemplazione e malinconia pervadono la sua esistenza, rappresentata come un soffio e i giorni della vita veloci come la spola nelle mani del tessitore, col filo della speranza che sta per mancare e la vita che sta per finire. Risplendenti di alta poesia biblica e letteraria questi elementi si trovano sovente nella vita umana, per coloro che portano il peso della disavventura, dell’incognita misteriosa della sofferenza senza tregua, del diverbio continuo tra ciò che è la vita con ciò che riserva. Giobbe, pur chiedendo a Dio di rispondergli, adoperando anche termini forti e duri, ascoltando la Sua voce, troverà conforto e passerà dal «sentito dire» alla realtà concreta del «vederLo», da una fede accolta ad una fede vissuta. P. Angelo Sardone

Salomone e S. Biagio

«Ti concedo quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria» (1Re 3,13). Secondo il volere di Davide, suo figlio Salomone diventa re d’Israele. È molto giovane ma sa come comportarsi soprattutto col Signore. Sull’altura di Gàbaon, a nord-est di Gerusalemme, dove aveva offerto sacrifici, il Signore gli apparve nel sogno e gli comunicò la sua disponibilità ad accordargli qualunque cosa gli avesse chiesto. Avendo la piena coscienza di non sapersi regolare il giovane Re chiede al Signore di avere un cuore docile per rendere giustizia al popolo e distinguere il bene dal male. Il Signore rimane compiaciuto della inusuale richiesta e poiché non gli ha chiesto né lunga vita, né ricchezza e vittoria sui nemici, ma discernimento nel giudicare, gli concede un cuore saggio e intelligente, unitamente a ricchezza e gloria. Ciò renderà Salomone unico tra tutti i re. La consapevolezza della propria indegnità e l’umiltà con la quale si chiedono le cose al Signore, rende bene accetti al suo cuore e propizio Dio nel concedere aldilà di quanto gli viene richiesto. La superbia o la presunzione nel chiedere, boccia qualsiasi risposta generosa, anche nel contesto umano. Grande generosità nella testimonianza e nella taumaturgia il Signore concesse al vescovo e martire S. Biagio (IV sec.) del quale oggi si celebra la memoria liturgica, tutt’altro che «balbuziente», come significherebbe il suo nome. Il suo culto diffuso in tutto il mondo richiama un particolare intervento miracoloso nel guarire un bimbo al quale si era conficcata in gola una lisca di pesce. Per questo è invocata la sua intercessione perché il Signore «liberi dal mal di gola e da qualunque altro male». Il suggestivo rito della «benedizione della gola» viene compiuto oggi incrociando due candele benedette nella Candelora. Auguri a tutti coloro che portano il suo nome. P. Angelo Sardone

Presentazione del Signore al Tempio

«Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate» (Ml 3,1). La festa della Presentazione del Signore, segna oggi 40 giorni dalla celebrazione del Natale e si inquadra in un particolare rito degli Ebrei legato alla nascita di un figlio ed alla purificazione della madre. Infatti, in riferimento alla purezza cultuale, la Legge di Mosè riteneva che la donna che aveva generato fosse impura per 40 giorni se si trattava di un maschio e 60 per una femmina (Lv 12,1-8). Per questo doveva recarsi al Tempio per la purificazione ed offrire, come sacrificio di espiazione, un agnello e una giovane colomba. Se poi era povera, bastavano solo due giovani colombe. Maria e Giuseppe si assoggettano a questa prescrizione e si recano al Tempio di Gerusalemme per assolverla. Qui li attende un vegliardo, Simeone che guidato dallo Spirito attendeva il Messia. A lui si aggiunge Anna, una profetessa molto anziana e vedova che serviva il Signore con digiuni e preghiere, notte e giorno. L’antica profezia di Malachia designa misteriosamente il Signore stesso, come farà poi l’evangelista Matteo (11,10). Contestualmente alla purificazione di Maria, Gesù viene presentato al Padre ed il vecchio Simeone, prendendolo in braccio, benedice Dio, dichiarando Cristo «luce del mondo». Dal IV sec. in questo giorno si celebra la «Candelora» che ricorda l’evento, con la benedizione delle candele e, più recentemente, dal 1997, voluta da S. Giovanni Paolo II, la Giornata per la Vita Consacrata. Essa vede protagonisti uomini e donne consacrati nella vita religiosa secondo carismi diversi, ma tutti col proposito di mantenere accesa la luce del Vangelo, testimoni nell’oggi «del non ancora», sentinelle vigili ed operanti nel servizio della Chiesa e del popolo di Dio. P. Angelo Sardone