Il mistero della croce

«Per mezzo della croce siamo stati salvati e liberati» (Gal 6,14)». La Chiesa celebra oggi la festa dell’Esaltazione della croce. I riferimenti liturgici evocativi dal Libro dei Numeri col serpente di bronzo che dava vita a coloro che, morsi dai serpenti brucianti lo guardavano, ripreso da Gesù nel dialogo con Nicodemo, attribuendo alla sua persona il segno vero della croce portatrice di salvezza, come anche il bellissimo inno cristologico della lettera ai Filippesi, sono importanti per comprendere il significato di questa celebrazione aldilà dei validi elementi storici. La dedicazione delle basiliche edificate dall’imperatore Costantino il 335 a Gerusalemme sul luogo del Golgota e del S. Sepolcro, dopo aver rinvenuto le reliquie della croce di Cristo, diedero origine alla festa. La croce era ritenuta il più terribile dei supplizi comminati ai responsabili dei più turpi delitti. Consisteva nel «patibulum», il braccio trasversale che il condannato portava sulle spalle fino al luogo del supplizio ed un palo verticale infisso a terra. Ad essa fu affisso Gesù e da allora è diventata l’albero della vita, talamo, trono ed altare, segno della sua signoria sul mondo e del Figlio dell’uomo che comparirà con lei alla fine dei tempi. La predicazione degli apostoli si è mossa nella presentazione della stoltezza della croce; il sacramento del battesimo configura i cristiani a partire dalla croce, morte e risurrezione. Il segno della croce è il segno più semplice e ripetuto di fede: con esso si rievoca il mistero della santissima Trinità, e della morte di Cristo dal cui costato aperto è nata la Chiesa e donato lo Spirito Santo. S. Annibale M. Di Francia riteneva la croce il «libro nel quale possono leggere ed imparare i dotti e gl’ignoranti, i grandi e i piccoli, i giusti e i peccatori, dal quale apprendere la più sublime teologia degli attributi di Dio; il libro nel quale a caratteri di sangue, sta scritto e spiegato il mistero dell’amore eterno di un Dio verso gli uomini, scuola di formazione dei più grandi santi della Chiesa». P. Angelo Sardone

S. Tommaso l’incredulo

«Gli rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Si può sintetizzare in questa mirabile espressione di fede, la testimonianza dell’apostolo S. Tommaso di cui oggi si celebra la festa. Era detto «didimo», cioè «gemello». L’evangelista Giovanni gli dà un significativo rilievo nel suo vangelo: esorta i Dodici a seguire Gesù per andare a morire con Lui in Giudea; chiede a Gesù quale sia la «via» per seguirlo; ed altro. Notevole importanza è stata sempre data alla cosiddetta sua «incredulità» dinanzi al mistero della risurrezione di Cristo raccontato dagli Apostoli, dalla quale potrebbe trasparire una tiepidezza della sua fede. Era scettico in quella circostanza e per credere aveva bisogno di vedere e mettere le mani. L’arte l’ha sempre consacrato nell’atto di mettere il dito nella piaga del costato di Cristo. «È uno che non si accontenta e cerca, intende verificare di persona, compiere una propria esperienza personale» (Papa Francesco). Non si sa dove sia nato né tanto meno dove sia morto, anche se la tradizione parla della sua evangelizzazione in Siria, Persia ed in India. L’espressione più grande della sua fede e della fede di chiunque si avvicina a Cristo è proprio quel «Signore mio e Dio mio»: in essa vi è tutta la resa da parte sua dinanzi alla giusta comprensione del mistero e nello stesso tempo l’adesione totale al Cristo, signore e Dio. I dubbi della fede sono comuni a tutti, grandi e piccoli, colti ed ignoranti. Sono comuni anche ai cristiani nonostante il cammino formativo e sacramentale. La fede, come testimonia l’apostolo è l’abbandono maturo e fiducioso a Dio nonostante il limite umano della difficoltà di comprensione. Solo così si può meritare di essere parte integrante della beatitudine di Gesù che riguarda «coloro che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Auguri a tutti coloro che ne portano il nome e come Lui, passano dalla incredulità alla fede certa e matura. P. Angelo Sardone