La qualità della vita sacerdotale

Mattutino di speranza

8 giugno 2020

Luce, splendore e grazia sono doni che provengono dall’alto e sono frutto della contemplazione del mistero di Dio. In esso ci si immerge non tanto per capire quanto per lasciarsi andare ed amare. Dal mistero della santissima Trinità si apprende il gioco eterno dell’amore che è generosità nel dono, oblazione nel servizio, perseveranza nel cammino di santificazione. La vita cristiana acquista senso e vigore nella misura in cui ci si inebria e ci si lascia guidare da queste realtà che superano l’aspetto meramente conoscitivo: mentre si manifestano in estasi e abbandono fiducioso, devono tradursi in percorso di vita coerente, dove le azioni corrispondano a quanto si professa con le labbra. Questo vale per tutti, preti e laici, consacrati e fedeli comuni. Queste realtà rendono attiva la vita ed autentiche le operazioni perché fecondano di verità l’intimo del cuore e lo predispongono a qualunque azione di amore, l’amore “più grande” di cui parla Gesù nel discorso d’intimità nel Cenacolo prima della passione e morte (Gv 15,13). La luce che viene da Dio è verità, evidenza; è calore, è vita. Lo splendore che rifulge sul volto di Cristo è la rivelazione del Padre: abbaglia, e converte la cecità umana in apertura di mente e di cuore per accogliere il mistero e tradurlo in vita. La grazia è la vita stessa di Dio in noi: attraverso la ricerca sincera di Lui e, per noi cristiani, la pratica corretta e responsabile dei sacramenti, produce gli effetti della pace, della serenità e della vera felicità. Questi elementi, per volere del Signore, passano attraverso la mediazione della Chiesa, la vita ed il ministero dei sacerdoti, deputati al servizio esclusivo del popolo di Dio, come pastori vigilanti, vignaioli esperti, pescatori fiduciosi, padri e guide illuminate, a seconda delle diverse identità, capacità, relazioni, uffici e ministeri. Il tutto in dimensione assoluta di dono e senza alcun interesse se non il bene delle anime. Tutta la vita del sacerdote è un dono, in tutti i momenti della sua giornata ed in tutte le sue intenzioni e le azioni che compie, da quelle del rapporto intimo col Signore a quelle che interessano, coinvolgono e servono le persone. La sua formazione, la sua vita, i suoi interessi, la sua eredità, sono il popolo di Dio per il quale spende l’intera sua esistenza, tempo, capacità, talenti, lagrime. Quanto è importante che l’uomo di Dio sia accorto, maturo, «completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tim 3,17) che «eviti le chiacchiere vuote» (1 Tim 6, 20), che annunci «la Parola, insista al momento opportuno e non opportuno, ammonisca, rimproveri, esorti con ogni magnanimità e insegnamento, vigili attentamente, sopporti le sofferenze, compia la sua opera di annunciatore del Vangelo, adempia il suo ministero» (2 Tim 4,2-5). Quanto è importante che la sua vita risplenda della luce che gli viene da Dio nella contemplazione e nella celebrazione dei divini misteri. Che i suoi occhi rivelino la purezza del suo cuore, che le sue mani accarezzino senza trattenere, che il suo cuore doni consolazione, effonda amore a profusione e mantenga il necessario distacco che è segno di equilibrio, maturità e capacità di intervento efficace. Quanto è importante che sia un uomo di preghiera e che nella preghiera porti ogni giorno tutti quelli che Dio gli ha affidato, soprattutto le persone che costituiscono un mistero nella sua vita. Quanto è importante che, come dicevano i Santi, quando è con Dio parli a Lui della sua gente, e quando è con i fratelli ed i suoi figli parli loro di Dio! Quanto è indispensabile che insegni ad amare Dio e manifesti questo amore con i suoi pensieri, le sue azioni, la sua piena disponibilità. L’uomo di Dio può non emettere fascino, ma guai se non emette la grazia e non è trasparenza di Cristo! Non è strumento estetico che procura sensazioni passeggere e caduche; la sua bellezza non è quella fisica, ma interiore, legata al rigore della sua impostazione di vita spirituale e relazionale. La sua fortezza dà forza e certezza a chi lo ascolta, a chi, attraverso lui, vuole realmente amare e seguire Gesù. Il popolo di Dio ha occhio fino. I laici, qualunque età essi abbiano, devono comprendere meglio che la felicità caduca dovuta ai sensi, alle emozioni, alle facili sensazioni di benessere psicologico ed anche fisico, tante volte lasciano nel cuore e nel corpo delusione ed amarezza, perché sono prodotti stagionali collocati sul bancone della vendita anche giornaliera, dal furbo commerciante di parole allettanti e di sensazioni facilmente coinvolgenti. La gente seria e matura comprende che l’amore del sacerdote passa attraverso la sua passione e la sua morte. Tante volte, purtroppo ciò si capisce dopo, quando potrebbe essere anche troppo tardi. In questo percorso di vita, al limite del mio esodo quarantennale di sacerdozio, il Signore mi dia la grazia, come fu per Giosuè, di aprirmi alla prospettiva definitiva della sua terra promessa della quale, insieme con le erbe amare ed il deserto, ho già gustato abbondantemente il latte, il miele ed intravisto l’orizzonte terso ed infinito del Paradiso. P. Angelo Sardone

L’eucaristia frutto di amore

Mattutino di speranza Domenica 7 giugno 2020
L’amore vero passa attraverso il sacrificio, nutre ed esalta la vita. L’amore crea, genera, corregge, redime, dà gioia piena e vera. La vita dell’uomo sulla terra non è solo il corpo, è anche l’anima. Ciò che regge il perfetto equilibrio di questa realtà che il filosofo Aristotele chiamava “sinolo”, è il mistero di Dio da una parte e l’adesione umile, fiduciosa e responsabile della creatura, dall’altra. Nella grandezza del suo amore Dio crea; nell’infinita sua misericordia salva, nella cura perenne e nell’apprezzamento di quanto ha creato, santifica. Il mistero di Dio uno e trino che oltrepassa ogni conoscenza e sapienza umana è donato e può essere compreso nei termini dell’analogia nel linguaggio, nei segni, nelle operazioni, come dicevano gli antichi “partim eàndem, partim diversam”, in parti uguale, in parti diversa. In questo mistero si entra in punta di piedi, si china il capo e ci si mette in ginocchio. Si comincia a capire qualcosa quando ci si affida completamente e si giace nella straordinaria altezza di Dio che ci eleva dall’abisso del nostro niente. Nella preghiera, che è prima di ogni cosa un atteggiamento di vita, nell’ascolto della Parola di Dio, nella celebrazione dei sacramenti, in particolare la Santa Eucaristia, anche se si continua a brancolare nel buio del peccato e del limite umano, si trova la risposta vera ed il sostegno stabile. La domenica, giorno del Signore, nella celebrazione del mistero della fede, più di ogni altro giorno siamo immersi nel mare grande dell’amore di Dio: esso si manifesta e concretizza nella mensa col dono della Parola, l’incontro coi fratelli, il cibo eucaristico. L’Eucaristia è infatti luogo, modo ed essenza stessa della piena comunione con Gesù in un amplesso di amore nel quale siamo coinvolti, tanto è grande il mistero, quanto grande è il dono che viene dato del tutto gratuitamente. Quanto è importante che la partecipazione sia attenta, viva, coinvolgente, degna del prezioso cibo degli Angeli che nutre, purifica, santifica, orienta, derime ogni ombra dalla mente e dal cuore, smaschera gli inganni diabolici che serpeggiano e condizionano anche la vita spirituale. La retta intelligenza e la coscienza critica e matura, è come un raggio di sole che penetra anche attraverso la minima fessura di un dolore e di una ricerca continua e appagante di felicità. La luce fa vedere la realtà che non semplicemente a parole o nei desideri, ma nei “fatti e nella verità” forse deve essere curata, se occorre, anche con un intervento radicale senza l’anestesia fugace di un affetto o di una felicità passeggera. L’esempio dei Santi insegna. L’Eucaristia, poi, come la contemplazione e la preghiera di adorazione, immette nella vita spirituale una responsabilità non di poco conto, soprattutto quando la grazia sacramentale non viene assimilata da una retta coscienza, da un perseverante impegno nel bene e nell’avanzamento spirituale di cui è specchio pur nella miseria e nei condizionamenti umani. L’Imitazione di Cristo un noto testo di spiritualità che ha formato nei secoli milioni e milioni di seguaci di Cristo, fa riferimento a situazioni di leggerezza e gravi responsabilità di superficiale impegno nel rapporto col grande mistero eucaristico, pur motivati da desideri impellenti di certezza e risposte al bisogno di amore che abbraccia il corpo e l’anima. Richiamando situazioni di dissipazione morale, se non di autentico sacrilegio, il testo riporta un passaggio che fa venire i brividi e induce a riflettere: «Chi mangiava il pane degli angeli, l’ho poi visto compiacersi delle ghiande dei porci» (Libro 3,14). Che terribile denunzia! Dal momento che, come dice S. Bonifacio, noi sacerdoti non siamo “spettatori silenziosi, mercenari che fuggono il lupo, ma pastori solleciti e vigilanti sul gregge di Cristo, predicando i disegni di Dio ai grandi e ai piccoli, ai ricchi e ai poveri” mi permetto di sottolineare con delicatezza e fermezza insieme, questa grave incongruenza e questo pericolo che potrebbe serpeggiare e condizionare temerariamente la vita spirituale anche dei più pii, svuotandola dei doni di grazia e rendendo piatta l’esistenza che invece, per questa forza e per questa grazia, può essere un magnifico canto d’amore ed una perla che splende per il suo incommensurabile valore. P. Angelo Sardone

La responsabilità del sacerdote

Mattutino di speranza

6 giugno 2020

 

Il compito di pastore delle anime è bellissimo, ma gravido di responsabilità. Unisce infatti in maniera mirabile la dimensione esterna propriamente umana del servizio ecclesiale e sociale, della vicinanza affettiva e dell’alterità generosa, ad un affascinante mistero in cui è immersa la vita del sacerdote, dove si coniano le sue parole, si indirizzano le sue operazioni, viene messa a disposizione di tutti la sua sconvolgente identità di “alter Christus”, un altro Gesù Cristo. Il sacerdozio al quale senza mio merito Gesù mi ha chiamato, mentre da una parte è un grande onore che non mi sono attribuito ma mi è stato dato da Dio nella sua infinita bontà e misericordia, dall’altra, riserva una grande e grave responsabilità umana, spirituale e morale. La vita del sacerdote naviga nel grande mare di un mistero incomprensibile già a lui stesso, talmente è grande la dignità e ciò che ne consegue. La sua identità lo pone nel contesto di una creatura che viene da Dio stesso “riservata”, per essere dedita al servizio esclusivo di Dio e dei fratelli. Non si tratta di un mestiere, più o meno redditizio, ma della risposta ad una vocazione e missione che consegue ad un grande amore, una chiamata di speciale consacrazione che Dio rivolge ad alcuni uomini scelti di mezzo ad altri uomini e costituiti in favore degli uomini per tutto ciò che riguarda Dio (Eb 5). La Sacra Scrittura presenta l’emblematica e misteriosa figura di Melchisedek, sacerdote del Dio altissimo che offre pane e vino (Gen 14,18): a lui fanno riferimento Davide e l’autore della Lettera agli Ebrei. Il libro del Deuteronomio, poi, presenta il sacerdozio, proprio della tribù di Levi, e delinea la fisionomia del sacerdote: egli è staccato dall’eredità di Israele; vive dei sacrifici consumati per il Signore e della sua eredità, non ha alcuna eredità tra i fratelli perché il Signore è la sua eredità. In cambio a lui sono dovute le primizie del frumento, del mosto e dell’olio, perché è stato scelto per attendere al servizio del nome del Signore (Dt 18,1-5). Per quanto arcaiche possono sembrare queste indicazioni, sono intramontabili fondamenti ai quali ancora oggi si ispira l’identità del sacerdozio cattolico che fa riferimento a Gesù Cristo «divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchìsedek» (Eb 6,20). Il sacerdozio è una grandiosa e nobile dignità che rende l’uomo “innocente della sua grandezza” come direbbe il celebre e brillante predicatore domenicano Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861). La debolezza tipicamente umana viene assunta dalla potenza santificate di Cristo sommo ed eterno sacerdote che nel sacramento dell’ordine trasforma ontologicamente cioè nell’essere suo più profondo, un povero uomo, debole, peccatore anch’egli, generandolo come figlio, rendendolo suo ministro per sempre, dotandolo di doni e carismi particolari. Oltre il potere sacramentale di consacrare e perdonare, a lui è attribuito il sublime compito dell’accompagnamento, della guida spirituale e dell’esercizio della triplice funzione di Cristo: santificare, insegnare e reggere il popolo di Dio a lui affidato. Ciò vale sia per il sacerdote secolare che svolge il suo ministero nell’ambito di una diocesi in comunione ed obbedienza al proprio vescovo, che per il sacerdote religioso, come me, che fa riferimento ai legittimi superiori. La guida delle anime è quanto di più delicato ed avvincente si possa immaginare ed esprimere dal punto di vista umano e relazionale; qualunque forma di competenza accademica, esperienziale e culturale non è mai sufficiente dinanzi al mistero profondo del cuore e della vita di ogni essere umano creato ad immagine di Dio. Per me ogni persona è sacra. Mi tolgo i calzari quando mi accingo ad entrare con pudore riverenziale e gioia stupefacente nella vita di un altro, qualunque età abbia, uomo o donna che sia, consapevole che quella è terra sacra, inviolabile, che ha Dio per padrone ed agricoltore e me come lavoratore dalla prima all’ultima ora del giorno, che sfida la buona e la cattiva stagione e rinnova perennemente il suo contratto di amore e per amore in termini di dedizione incondizionata di tempo, affetto, competenza, senza nulla pretendere. Io posso solamente affacciarmi nella tua vita con delicatezza e rimanervi non per godere del suo possesso, ma nella gioia di donarmi e spendermi fino alla morte. Quante gioie si sperimentano in tutto questo, ma anche quanta sofferenza che al mondo sarà nascosta e potrà essere compresa da chi sta accanto senza chiedere ed entra nel mio cuore senza farsi accorgere, con lo stesso pudore, la stessa intuizione con la quale io mi sono affacciato e sono entrato nella sua vita. Tutto ciò che ne può venire, sarà la riconoscenza intelligente e generosa di chi avrà compreso che la sua esistenza può essere cambiata grazie alla disponibilità di qualcuno che non ha operato per merito suo, ma su dettato e precisa e misteriosa indicazione di Dio. Voglio continuare ad essere pastore amante delle pecore, fosse anche una sola, soprattutto quando questa vaga per valli impervie, per sentieri che allettano con una vegetazione bella da vedere e mangiare ma effimera ed amara e nascondono insidie e tranelli su una strada apparentemente facile e generatrice di una felicità senza tenuta di stabilità. E questo, ancor più quando la pecora riassume in se stessa categorie e preziosità straordinarie: è agnella timida ed indifesa, è esperta pecora madre, è grassa ed acciaccata per l’ingordigia e la delusione, è ferita e dolorante per ciò che le è capitato. La mia responsabilità è schiacciante, soprattutto quando vivo la solitudine, l’incomprensione, talora anche il rifiuto; ma la gioia del donare e donarmi è ancor più grande ed appagante. Ricordo i nomi, le storie, le vite delle mie pecorelle e dei miei agnelli. Sono intrecciate nella mia storia, nella mia vita. Le lagrime raccolte ed asciugate sono confuse con le mie talora note solo a Dio. Mi stanno a cuore soprattutto le pecore più deboli ed apparentemente insignificanti. Il Signore mi fa continuamente la sorpresa di mettermi accanto pecore ed agnelli straordinari anche nel loro mistero di vita: sono diventati per me padri e madri, figlie e figlie, fratelli e sorelle. Non chiedo nulla. Voglio solo dare. Se mi ripagano di un sorriso, di un ricordo orante, di una telefonata, di un “ti voglio bene”, sono felice e continuo a dire: “Grazie Signore di avermi fatto tuo sacerdote”, proprio come il 14 giugno1924 S. Annibale suggerì nell’orecchio, dopo la Comunione, ad uno dei suoi primi due sacerdoti rogazionisti, il giorno della sua ordinazione. Mille volte nascessi, mille volte continuerei ad essere sacerdote e a dare la mia vita per gli altri, sacerdos in aeternum! P. Angelo Sardone

Novena a S. Antonio di Padova /1 giorno

E’ cominciata oggi la Novena a S. Antonio di Padova, il santo taumaturgo protettore delle nostre opere che si dicono “antoniane”. redo noto uno schema singolare di Novena scritta da S. Annibale a partire dai termini che compongono il celebre Inno Antoniano “Si quaeris miracula”. P. Angelo Sardone.

Guardare avanti

Mattutino di speranza

4 giugno 2020

 

Sempre si lascia qualcosa dietro le spalle. È una legge di natura conseguente al fatto di camminare, di procedere, di andare avanti. Dietro si lascia il tempo, le persone, le cose, gli avvenimenti, le emozioni, i sentimenti, il peccato. Si lasciano tante cose buone, una scia di luce che si aggiunge a quelle perenni del cielo. Tutto diventa storia; tutto si traduce in memoria affidata oltre che al passato, al giudizio misericordioso di Dio, alla coscienza personale e collettiva. Ciò che è buono rimane impresso nel ricordo e nella benedizione e va oltre il tempo; ciò che buono non è viene affidato alla benevolenza di Dio, alla sua comprensione del nostro limite umano e al perdono del tempo e della storia. Si guarda avanti. Agli occhi di Dio, «mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte» (Sal 89,4). La Scrittura attesta che «il saggio ha gli occhi in fronte, mentre lo stolto cammina nelle tenebre» (Qo 2,14). La legge del tempo è inesorabile: allontana il presente dal passato e l’avvicina ogni giorno di più all’eternità. Ogni cosa finisce, di ogni cosa c’è il limite e noi ce ne accorgiamo. Tutto passa: solo Dio resta. Verso questa meta siamo proiettati e camminiamo. Il bene fatto, anche quando non lo ricordi, viene inciso e rimane alla conoscenza di Dio e degli uomini. La saggezza popolare ha coniato il significativo motto: «Fa il bene e scordalo! Se fai il male, pensaci!». Nel libro di Dio tutto è scritto, tutto è a Lui noto. La sua identità di giusto giudice della storia, del mondo, dell’uomo, lo pone in relazione giuridica con le creature in termini di verità, ma anche e soprattutto di amore misericordioso che offre al peccatore, anche il più perverso ed astuto, l’opportunità sino alla fine, di pentirsi, di tornare sui suoi passi, di affidarsi a Lui, di guadagnarsi la vita eterna. Il ladrone confitto in croce accanto a Gesù sul Calvario, è l’esempio tipico di come, anche a conclusione di una vita variamente dissipata, sull’orlo di una morte infame, subita a causa delle colpe commesse, si può trovare l’impulso e la forza della fede che fa ascoltare con più attenzione ciò che per troppo tempo si è ascoltato con svogliatezza e superficialità, che fa guardare accanto con gli occhi appannati dal dolore acerbo della solitudine, dell’abbandono da parte di tutti e scorgere finalmente un briciolo di umanità, di coerenza e compassione che forse si è rincorso per tutta una vita e che ora si riesce a strappare con una maggiore lucidità e ferma volontà. Anche il male lasciato indietro, se corredato da una limpida presa di coscienza, da un dolore perfetto, da un pentimento sincero, maturo e duraturo, può essere trasformato in bene. Il letame raccolto nella stalla, con i suoi nauseanti odori, rifiuti organici destinati alla decomposizione, “feccia dispensata dal ventre” come direbbe il poeta Ariosto, si trasforma in concime utile per la terra e la produzione di frutti. Anche il peccato, nauseante condizione di apparente e fatua felicità e consapevole distacco da «tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,9), se affidato alla misericordia di Dio con una contrizione sincera, frutto di una lettura attenta della propria vita e di un distacco deciso e fermo dal male, con un proposito serio e perseverante, viene trasformato dalla bontà di Dio in perdono. Lui che ogni giorno fa nuove tutte le cose, provvede ancora di più a rendere nuova la creatura destinando a lui «un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più» (Ap 21,1). Il grande suo perdono è proporzionato al grande nostro pentimento e cambiamento concreto della vita; «dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). Dio non lo si prende in giro. La responsabilità umana rimane tale e diventa anche principio di condanna se il male è fatto e viene continuato a fare ad occhi aperti, pur conoscendo il valore del bene, se si baratta una perla di grande valore con un miserabile anche se luccicante pezzo di bigiotteria, l’eredità di amore e di bene del Padre per un gustoso piatto di lenticchie. Il Signore ci ripaga secondo l’innocenza delle nostre mani se abbiamo custodito le sue vie, se siamo stati integri con Lui e ci siamo guardati dalla colpa (Sal 17,22). Dopo questi giorni di densa oscurità ci lasciamo dietro le spalle la paura, il disorientamento, il peccato, per proiettarci verso una luminosità nuova che viene resa tale anche dalla diversa considerazione di fatti, persone, dello stesso rapporto con Dio. Gli occhi della testa vedranno diversamente se gli occhi del cuore saranno stati abbagliati dalla luce della verità che, soprattutto in tempo di fitte tenebre, anche se con un minuscolo raggio, mette in evidenza le realtà più nascoste e profonde dell’anima e trasforma il buio pesto in una meravigliosa e splendida luce. La luce di grazia, la luce di Dio. Questo non è un sogno o un pio desiderio: è la nostra fiducia; può essere, se lo vuoi, una vera, appagante realtà. P. Angelo Sardone

Duc in altum!

Mattutino di speranza

3 giugno 2020

Siamo chiamati a prendere il largo. Non si tratta di una libertà concessa, ma di un esplicito invito a rimettersi in barca e gettare le reti. È una vera opportunità per ripartire e ricominciare. La vita dell’uomo, infatti, è un ri-avvio continuo in sincronia con i ritmi delle stagioni e degli avvenimenti che segnano la sua esperienza giornaliera sia ordinaria e ripetitiva, che straordinaria e sconvolgente. Tante volte è duro riavviare e riavviarsi. Si può aver acquisito l’anomalo senso di una stabilità nell’instabilità, di una armonia nella stonata e sgradevole dissonanza, di una sicurezza nella insicurezza, di un ordine apparente nel disordine più evidente, fino a far diventare il tutto, l’unica attuale certezza perché del domani non se ne sa niente. L’invito del Signore rivolto a Pietro «duc in altum, prendi il largo» raccontano da S. Luca nel suo Vangelo (Lc 5, 1-11), è perentorio e precede l’amaro sfogo del pescatore incallito, per una notte trascorsa nel lago senza aver pescato nulla. E’ l’invito rivolto al giovane ed alla giovane, all’uomo ed alla donna di oggi, sconsolati e tristi per una stagione o una vita che ha riservato solo amarezze e delusioni senza fine, tagliati fuori dalla speranza, illusi nella ricerca di qualcosa di grande rivelatosi certezza incerta, ammiccante ed attrattivo specchio di forte illusione su fragili sentimenti, meschini e talora diabolici tranelli colorati con parole melliflue che solleticano il cuore ed il corpo e destano sensazioni che appagano solo per poco ed in superficie. La pesca mancata, tante volte è il risultato di una vita costruita arrancandosi per via, adattandosi alle situazioni anche le più incresciose e funeste, alla ricerca non sempre consapevole di emozioni stagionali che riempiono solo un vuoto interiore, il più delle volte di affetto, che sembrano dare una pienezza e l’incentivo a ricostruire sulle macerie della vita. Senza sapere che in fondo l’ingarbugliano in una rete di confusione talmente grande che, se anche dovesse presentarsi un piccolo pesce, quel meschino riesce a scappare perché le maglie della rete sono larghe e non trattengono nulla, i sentimenti sono confusi e le illusioni sono accecanti. Gesù, anche a seguito di una terribile esperienza come quella attuale della pandemia, vuole servirsi di noi, della nostra miseria, della coscienza di essere peccatori, vuole servirsi della nostra barca (il nostro corpo, la nostra vita, l’intelligenza, la bellezza, la vocazione, la spiritualità anche se fragile ed incerta) dove ha preso un posto straordinario per insegnare a noi e agli altri che sono rimasti a riva dei nostri interessi. Il maestro induce a prendere il largo, senza paura, fidandoci, perchè rimane Lui stesso sulla barca con noi per darci la garanzia più autentica della stabilità sull’onda sferzata dal vento e della sicura raccolta di una pesca abbondante. Ma Cristo è esigente: propone e richiede un serio programma di vita spirituale non camuffato da facili emozioni passeggere e sul filo della simpatia, ma determinato da una volontà decisa a «finirla una volta per sempre con i nostri peccati». Chiede di prendere decisioni precise anche se dolorose per andare verso il largo molto più spazioso ed avvincente di un porto limitato alla presenza di troppe barche e troppi pescatori che ripetono ogni giorno il loro annoiato cliché di un tentativo rassegnato di raccolta dove non abboccano più neppure i pesci più piccoli. Decisioni non affrettate e non sollecitate dall’emozione del momento, ma ponderate sulla base di illuminati consigli di pescatori più saggi che sanno quando è il momento di pescare e quando no, conoscono la veemenza e la pericolosità del mare, sanno adoperare le lampare con la scorta del carburante e sanno rettamente amministrarlo dosandolo per una notte che può durare anche tutta una vita. Se c’è Gesù accanto o se è Lui a nascondersi dentro un “pescatore di uomini”, stabile e non avventizio, generoso ed esigente, perspicace e lungimirante, serio e proteso al vero bene dell’anima, non solo la pesca sarà abbondante, ma ci sarà bisogno di chiamare altri a godere della stessa gioiosa abbondanza. Da quarant’anni io esco ogni giorno per la pesca, affrontando il lago e il mare talora tempestoso ed incerto, con la consapevolezza dell’apprendista in rodaggio e lo stupore incantato del bambino, con la meraviglia sempre nuova di chi tocca con mano l’abbondante Provvidenza di Dio in pesci piccoli e grandi, variopinti e monocromatici, graziosi e gustosi, sani e feriti, che hanno abboccato all’amo o sono volutamente entrati nella rete per essere finalmente valorizzati. Questi pesci io raccolgo con cura scrupolosa ed amore sviscerato, sapendo che non mi appartengono, che sono il bel regalo che sorprendentemente Dio mi riserva e mio grande onore sarà quello di mostrarli orgogliosamente sul banco della vendita ad intenditori accorti e non semplicemente voraci di novità. E questo lo faccio perché sono convinto, come mi spesso mi ripeteva un mio confratello cui devo l’introduzione ed i primi passi nel fascinoso mondo della filosofia, che, come affermava Emmanuel Levinàs, un filosofo francese di origini ebraico-lituane, «dal momento in cui un altro mi guarda, io ne sono responsabile». A maggior ragione quando uno entra nella mia vita, mi si affida, cammina con me, sostiene anche me. P. Angelo Sardone

Siamo davvero cambiati?

Mattutino di speranza

Lunedì 2 giugno 2020

 

La gioia piena e la guida alla verità tutta intera sono il dono ed il fine ultimo della presenza e dell’opera dello Spirito Santo nella vita del cristiano e della Chiesa. Nella sua predicazione conclusiva, ricca di connotati di forte intensità emotiva e di profonda intimità, condivisi a cuore aperto con gli apostoli, Gesù aveva rivelato queste verità come elementi costitutivi e propri dell’essenza e della missione della terza Persona della santissima Trinità, forza trainante e distintiva della sua evangelizzazione, dono alla Chiesa e sua guida perenne. È proprio lo Spirito, per chi a Lui si consegna con fede matura ed abbandono fiducioso, a guidare la storia personale, ad indicare con delicatezza e sollecitare con fermezza il cammino da seguire nella piena libertà, anche quando non si riesce a comprendere fino in fondo il volere di Dio che supera ogni nostra conoscenza. Lo Spirito Santo, che è l’anima della nostra vita, guida ciascuno nel compimento della sua personale vocazione e missione, alla piena verità ed alla vera pienezza della felicità. A volte però la sua azione viene ostacolata da una resistenza aperta o nascosta, temporanea o talora costume di vita in compiacenza con un’apparente vita spirituale di alta qualità, fatta di devozioni, pratiche di pietà, pii esercizi, digiuni, pellegrinaggi. La resistenza allo Spirito è la resistenza alla grazia «il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà» (CCC, 1996), è la negazione dell’evidenza e della verità, è la certezza autocompiacente anche di una situazione di evidente peccato. Può sfociare in una netta e ferma opposizione, quando, effettivamente, la vita non cambia e le scelte decisionali più importanti che occorre prendere, non sono prese adeguatamente né tanto meno adempiute secondo retta coscienza. E questo diventa un dramma. Quando si oppone resistenza alla grazia, che è Gesù Cristo, si entra nel vortice dell’inganno diabolico e non sempre ci si rende conto. La resistenza nascosta è pericolosissima ed è bisognosa di purificazione e di un taglio radicale col male. L’intero arco temporale della pandemia, al di là delle ristrettezze sopportate, delle tante morti, della paura del contagio, della privazione della libertà e delle risorse sacramentali più necessarie ed a portata di mano con l’esperienza della vita comunitaria, ha imposto nuove abitudini determinate dalla necessità della continuità del lavoro, del ritmo della scuola e dell’insegnamento, delle relazioni sociali. Seppure è stato un dramma, può essere una vera opportunità per cambiare vita. Tanti sono diventati maestri, virologi, avvocati, psicologi, esperti tuttologi, affrettati consolatori, venditori gratuiti e non di pareri e soluzioni ineccepibili, dietro la video camera di un cellulare, occhio fotografante e trasmettitore di emozioni, sorrisi, lagrime, mettendo la propria privacy sulla bocca e negli occhi di tutti. La confusione a volte è diventata grande, gli allarmismi asfissianti, le ventate apocalittiche paurose, le soluzioni a portata di mano, le affermazioni confuse, alternanti e contrastanti in malcelate verità o menzogne. Si è cercato di esorcizzare la paura, cantando dai balconi, poi ci si è resi conto che il gesto apotropaico non ha funzionato molto per bloccare il contagio, almeno fino quando un uomo vestito di bianco, claudicante, col capo scoperto sotto la pioggia scrosciante, con le mani vuote di certezze umane e piene di fede, portando sulle sue deboli spalle i bisogni dell’intera umanità sconfitta dal male, ha sfidato i giudizi del mondo intero andando verso Gesù Crocifisso, il grande sconfitto, sostandovi nel silenzio angosciante di morte. Poi in quello pulsante di vita davanti all’augusto sacramento eucaristico col quale ha benedetto il mondo intero implorando la misericordia e la fine del dramma. In tutto questo tempo e con tanti avvenimenti, il Signore e lo Spirito hanno parlato. Abbiamo ascoltato? Abbiamo percepito e compreso quanto ci è stato detto? Le chiese chiuse sono state riaperte per l’accoglienza dei fedeli, i sacramenti per essere amministrati nel rispetto di tutte le norme. Non c’è stata e non credo ci sarà movida spirituale e religiosa, almeno lungo i navigli d’acqua battesimale ed i banchi delle chiese e le mense eucaristiche. Vige ancora tanta paura. Ed è comprensibile. Spero tanto però che, come ha recentemente detto il papa siamo davvero cambiati, ridimensionati nelle nostre facili e superficiali onnipotenze, siamo tutti un po’ diversi con una coscienza più matura, consapevoli che «Dio scampa dai pericoli al di là di ogni speranza umana», come dice S. Basilio Magno e che, tutti i peccati saranno perdonati, eccetto quelli contro lo Spirito, cioè la resistenza consapevole e piena alla grazia. Occorre realizzare non solo a parole ma con i fatti e la verità, un affidamento più concreto e serio all’azione dello Spirito, mettendo da parte inevitabili resistenze, soffuse perplessità, facili pregiudizi, netti rifiuti, accogliendo invece la grazia che come un torrente in piena scorre verso di noi. P. Angelo Sardone

Solennità di S. Annibale

Mattutino di speranza

1° giugno 2020

 

La prima e fondamentale vocazione del cristiano è la propria santificazione. Anzi questa è la stessa volontà di Dio (1Tes 4,3), inscritta nella natura umana che pone l’uomo in relazione intima, profonda e continua col Creatore e Signore della vita. Si realizza in un cammino giornaliero, nell’esercizio delle virtù teologiche ed umane entro i parametri segnati dalla Grazia dei sacramenti e dalla preghiera. Pur nella consapevolezza della miseria e del proprio limite umano dovuto al peccato, il santo è colui che si distacca realmente da tutto ciò che non porta a Dio e tutto a Lui orienta. Santo è colui che ha la testa fissa in Dio, non per aria, ed il corpo del viandante, che calca la terra e le sue realtà con lo sguardo rivolto al cielo, ivi proiettando e finalizzando la sua esistenza con la ricchezza dei suoi valori: sentimenti, affetti, operazioni, certezze, dolori, speranze. È colui che sublima ogni realtà umana, persone, cose, interessi, portandola ad un livello superiore di fede e di abbandono in Dio che ogni cosa volge al bene. Si lascia fecondare nell’intimo dalla forza misteriosa dello Spirito che gli immette l’energia vitale, lo solleva dalla caduta e dal peccato, lo orienta al vero, al bene. La sua vita è dominata da Dio, la sua volontà è fissa in Dio, la sua felicità è Dio stesso, il primo amore dal quale scaturisce e nel quale si inquadra ogni altro amore. Il santo non è chi fa cose straordinarie, ma chi compie straordinariamente bene le cose ordinarie. Non è facile comprendere queste realtà fino a quando non ci si lascia soggiogare dalla grazia, non si apre finalmente il cuore a Dio ed a Lui si chiede: «Fammi santo come tu sei santo!». Oggi si celebra il “dies natalis”, cioè il giorno natalizio alla vita che non ha fine, e la santità conclamata anche in terra di Annibale Maria Di Francia, un campione di virtù ed un esempio di vita veramente evangelica, un santo dei tempi moderni, Di lui un vescovo disse: «Vuol essere a forza santo!» E così è stato non col parossismo superbo e vuoto delle parole, ma con la concretezza dell’unione perfetta con Dio per puro amore, in un felicissimo stato di grazia, che non ha bisogno di operare grandi prodigi, perché già questo è il massimo dei prodigi. Annibale Di Francia non è solamente il Fondatore delle due Congregazioni delle Figlie del Divino Zelo e dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, è mio padre, padre nella fede, padre della mia vita spirituale, padre e modello nella passione del carisma del Rogate, ossia della preghiera ed azione per le vocazioni, una vera malattia che ha contaminato e condizionato per sempre il mio cuore e per la quale non c’è medicina. La sua vita terrena si iscrive in due elementi essenziali, complementari ed unificanti: l’amore per Dio e per il prossimo. La formazione ricevuta in famiglia, l’intuizione del Rogate, frutto di una speciale illuminazione dello Spirito, l’amore ai poveri vissuto per cinquant’anni nel Quartiere Avignone di Messina e dei vari luoghi in cui la Provvidenza lo chiamò ad operare, sono gli elementi portanti di una santità che si è imposta nella Chiesa e che ha generato una famiglia di religiosi e laici che seguendo la sua scia di vita continuano oggi la sua missione. Nell’ordinarietà ha vissuto la dedizione d’amore verso i piccoli ed i poveri, testimoniando fino all’eroismo che la più autentica carità verso Dio è mettersi a suo servizio nel compimento della personale vocazione, e la carità più fruttuosa verso il prossimo è la cura, l’attenzione, la solidarietà, la preoccupazione viva e concreta della salvezza delle anime, nessuna esclusa. Sono stato toccato dal suo amore e dalla sua particolare paternità e rimango ogni giorno incantato dalla ricchezza dei suoi scritti, dall’attualità delle sue intuizioni, dal suo amore sviscerato per Gesù e Maria, per la Chiesa ed il papa, per la gran messe delle anime che necessita di buoni operai. Ho avuto la grande sorte di essere stato chiamato a realizzare la mia vita umana e sacerdotale nella vocazione rogazionista: essa mi configura prima di tutto come suo figlio, mi accorda al suo cuore e fa sentire anche il mio cuore «trafitto da tanta rovina specialmente per le tenere messi che sono le nascenti generazioni», per le quali il rimedio più efficace è proprio la preghiera e l’azione per le vocazioni. Al Rogate anche io dedico i miei giorni, i miei pensieri, i miei affetti, il mio lavoro, le mie sofferenze per le anime. Esso è il fuoco insopprimibile nel mio cuore, un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa senza alcuna possibilità di contenerlo. Per il Rogate anche io sono pronto a dare il sangue e la mia stessa vita. P. Angelo Sardone.