La preghiera dell’evangelizzatore

«Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà» (Col 1,9). La bella notizia dell’adesione alla fede cristiana con il corredo della speranza e del vicendevole amore, fa sgorgare nel cuore di Paolo la preghiera assidua di sostegno ai Colossesi perché si distinguano nella pienezza della loro azione formativa ed apostolica attingendo direttamente da Dio e dalla conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza ed intelligenza. Questo dato teorico deve necessariamente sfociare nella pratica che si traduce innanzitutto nel piacere a Dio e nel portare frutto in ogni opera buona. La potenza stessa della gloria di Dio rende forti e, di conseguenza, perseveranti e magnanimi in tutto. L’attenzione e la preoccupazione dell’Apostolo nei confronti di questi cristiani è il loro effettivo avanzamento nel cammino di fede che può e deve essere sostenuto ogni giorno dalla preghiera, perché possa portare concretamente ad una conoscenza vera della volontà di Dio. È molto bello considerare come l’atteggiamento dell’evangelizzatore sia entusiasta ed allo stesso tempo realista, notando la difficoltà per i cristiani nella società di allora come di oggi, di avanzare nel cammino nella pienezza dell’azione dello Spirito ed in corrispondenza analoga alla Grazia. Tante volte purtroppo le preoccupazioni e gli interessi più vivi dei ministri, con malcelata compiacenza dei cristiani stessi superficiali e languidi, sono rivolti alla dimensione meramente psicologica e si rischia di trascurare nel cammino formativo il riferimento fermo e deciso all’accoglienza della Grazia che giunge attraverso i sacramenti ed il conseguente impegno di ciascuno nella seria, se pure difficile perseveranza. P. Angelo Sardone

Epafra, fedele collaboratore

«Egli è presso di voi un fedele ministro di Cristo e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito» (Col 1,8). La lettera di S. Paolo agli abitanti di Colossi, molto probabilmente scritta da Roma nel corso della sua prigionia tra il 61 ed il 63, si colloca con quella agli Efesini ed a Filemone, in un gruppo detto omogeneo. Da questa città che Paolo non aveva evangelizzato personalmente è giunto Epafra, suo compagno di ministero e di prigionia, evangelizzatore a Colossi, e gli ha riferito informazioni positive della comunità ed in particolare l’amore nei confronti del Signore, tra loro e verso Paolo, nello Spirito Santo. All’iniziale rendimento di grazie a Dio che sottolinea la presenza delle tre virtù teologali, forza stessa della comunità, segue un bell’elogio di Epafra che lo supplisce nell’opera apostolica come autentico fondatore della chiesa colossese. Il suo nome, forma abbreviata di Epafrodito, significa «altamente desiderabile». Si sa ben poco della sua vita, ma si comprende bene da quello che dice Paolo, che amava la Chiesa nella quale è un «fedele ministro di Cristo» per gli abitanti di Colossi. È molto importante questa sottolineatura che determina la caratteristica dell’uomo di Dio chiamato a vivere la fedeltà come esigenza della sua vocazione. Come nell’amore coniugale questa caratteristica è essenziale, anche nella vocazione sacerdotale e religiosa è esigita per la natura stessa di questo amore particolare e l’efficacia della sua azione apostolica. In un tempo come quello attuale nel quale la fedeltà ad ogni livello e vocazione è diventata fluida se non opzionale, una testimonianza di questo genere elogiata dall’Apostolo, fa molto riflettere e diviene sprone efficace ed emulativo soprattutto per noi sacerdoti ed anime consacrate. P. Angelo Sardone

La santa dei poveri più poveri

«Non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,6). Dinanzi al mistero della venuta di Cristo, aldilà di tutte le considerazioni e le attese antiche e moderne oggetto di preoccupazioni data l’imminenza soprattutto allo scoccare dei millenni, ciò che rimane da fare sono la vigilanza e la sobrietà. Il dato biblico certo enunziato da S. Paolo è che l’avvento del Signore sarà come quello di un ladro di notte. Occorre dunque non dormire rassegnandosi ad un cieco e fatale destino ma restare svegli ed operare il bene finché c’è la luce sorretti dalla fede e dalla speranza cristiana. Nella continua vigilanza e mossa dalla sobrietà della vita servendo i poveri più poveri, si è mossa l’intera esistenza umana di Agnes Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), nata in Macedonia da una famiglia albanese e nota in tutto il mondo come una delle donne di carità più in vista di tutti i tempi. Il suo percorso vocazionale la fa approdare inizialmente nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto, destinata il 1929 in India, nella zona orientale di Calcutta. L’impulso della carità alla vista di tanta miseria la spinge a mettere in pratica come una seconda chiamata per poter condividere la sua vita con i poveri ed insieme con alcune giovani il 1950 fonda la Congregazione delle Missionarie della Carità, che immediatamente si spande in quasi tutto il mondo. La sua fisionomia di donna esile e minuta piegata dalla fatica e la luce del suo sorriso, riflesso della sua carità non tradiscono la sua reale identità di donna attiva e contemplativa, determinata e concreta, vigilante e sobria. L’attualità del suo messaggio richiama l’attenzione sempre nuova verso i poveri più poveri, i dimenticati e non amati che si trovano in ogni parte del mondo, a cominciare dai nostri contesti opulenti e spesso dormienti verso simili necessità. P. Angelo Sardone

Santa Rosalia, la “santuzza”

«Noi verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore» (1Ts 4,17). Il problema dei morti era vivo presso la comunità cristiana di Tessalonica e destava afflizioni diverse. S. Paolo afferma che coloro che sono morti, per mezzo di Gesù Dio li condurrà con sé. Inoltre, resuscitando, essi saranno raggiunti da noi e condotti all’incontro col Signore ed al giudizio, inizio del nuovo ed eterno regno. Oggi si fa memoria di S. Rosalia, una vergine eremita del XII secolo, patrona della città di Palermo. Non ci sono notizie biografiche certe e tante sono avvolte nella leggenda, anche se sono stati rinvenuti documenti dai quali risulta che già dal 1196 veniva chiamata Santa Rosalia. Nobile di nascita, in un periodo nel quale era stato inaugurato in Sicilia da parte dei Normanni il rinnovamento cristiano, lasciò gli agi della corte e si ritirò in contemplazione e preghiera in una grotta sul monte Pellegrino, a Palermo, cibandosi del necessario e lì morì il 4 settembre 1160. Nel corso di una terribile epidemia di peste nel 1624, apparve in sogno prima ad una donna ammalata e poi ad un cacciatore, indicando loro il luogo delle sue reliquie e chiedendo di portarle in processione nella città. A seguito del gesto la città fu liberata dal contagio ed i malati guarirono. Tuttora in Sicilia viene invocata come la «santuzza». Il suo nome è composto da due fiori, la rosa ed il giglio (in latino lilium) che indicano allo stesso tempo bellezza e purezza. Auguri a tutte coloro che portano questo bel nome, particolarmente diffuso in Italia e beneficiano della protezione di una santa che ancora oggi attrae pellegrini e devoti. P. Angelo Sardone