I comandamenti, strada di luce

252. «Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici» (Ger 7,23). Nella sezione dei suoi oracoli in relazione al vero culto di Dio il profeta Geremia sottolinea la contraddizione del culto senza fedeltà, quando cioè si dà troppa importanza all’esteriorità anche nelle cose di fede, e poco invece all’ascolto della voce di Dio. In effetti nel Decalogo non vi sono prescrizioni rituali ma un richiamo preciso alle norme stabilite che presentano Dio come il vero Dio ed il popolo d’Israele come “il popolo di Dio”. L’invito del Signore è di camminare sempre sulla strada da Lui fissata per avere la garanzia della vera felicità. La strada è tracciata da una serie di indicazioni che sia applicano alla vita, alle relazioni con Dio e con gli altri, alla gestione della natura, alla salvaguardia del creato. La strada prescritta da Jahwé è quella dei comandamenti, strada di luce, che insegna la vera umanità dell’uomo, i precetti della legge naturale radicati nel suo cuore. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essi sono incisi nel cuore umano, sono obbligazioni gravi, immutabili, ed obbligano sempre e dappertutto: nessuno è dispensato. Eludere questi precetti, non prestarvi ascolto, voltare le spalle invece di dirigere il volto verso Dio, agire secondo l’ostinazione del proprio cuore, significa diventare inesorabilmente schiavi di se stessi, bandire la fedeltà, vivere nel buio. È molto importante capire queste cose, approfondirle per sforzarsi poi, nonostante la limitatezza umana e la presenza del peccato, viverle fino in fondo e godere una felicità piena e duratura. P. Angelo Sardone

Il cammino dell’Esodo e la memoria dei prodigi

251. «Bada a te e guàrdati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita» (Dt 4,9). Il cammino del popolo d’Israele verso la Terra promessa è una grande scuola di vita. Tra i libri del Pentateuco quello dell’Esodo è “l’abbozzo della nostra redenzione” in quanto, secondo la sua etimologia, significa partenza, inizio del grande atto salvifico di Jahwé. L’esperienza quarantennale del suo cammino, ha portato il popolo eletto a percorrere non la via dei Filistei, la strada principale che collegava l’Egitto con la terra di Canaan, protetta da grandi fortezze egiziane, ma ad evitarla. Ciò determinò anche il lungo viaggio e tutte le conseguenze. Nell’esodo il popolo vedeva la radice del suo essere nazione, della sua fede nel Dio vero e nella Sua volontà di salvezza. Questo è il motivo per il quale, soprattutto i profeti, vedevano il contrasto tra le gesta di Dio a favore del popolo e la sua costante infedeltà. Le cose viste e sperimentate erano davvero tante, a cominciare dalle dieci piaghe inflitte da Dio all’Egitto, alla celebrazione della Pasqua, dallo strepitoso passaggio del Mar Rosso, al cammino nel deserto, dal dono dei Comandamenti alla privazione del pane, della carne e dell’acqua, dalla fedeltà di Dio, alla stanchezza di fede. Ripetutamente il Signore attraverso Mosè ricorda al popolo la fedeltà all’alleanza e la memoria puntuale di tutto ciò che gli è capitato, tenendolo a mente per tutto il tempo della vita. L’insegnamento storico si applica al nuovo popolo d’Israele, la Chiesa, che spesso, infedele, non ricorda adeguatamente e quindi a non orienta i propri passi sulla strada del suo esodo che conduce alla salvezza eterna. P. Angelo Sardone

La grande misericordia di Dio

250. «Fa’ con noi secondo la tua clemenza, secondo la tua grande misericordia» (Dn 3,43). La Liturgia richiama con insistenza il grande dono divino della misericordia. Essa è collegata all’abituale disponibilità di Dio al perdono e alla clemenza, ossia il modo benevolo e moderato nel riprendere e nel punire. Nei testi profetici e poetici della Bibbia è un dato ricorrente che emerge sia dalle stesse Parole di Dio che dalle invocazioni e richieste di perdono a Lui rivolte in conformità all’amore promesso e manifestato al popolo d’Israele. L’umiliazione subita, la mancanza di persone adatte a governare, di punti di riferimento sociali e religiosi, validi e sicuri, mentre determina confusione e delusione, predispone un cuore contrito ed uno spirito umiliato, che si offre come sacrificio. Si paga sempre e caro quando ci si allontana dalla verità, da quanto la legge naturale e positiva richiede e si brancola nel buio più fitto dell’incomprensione propria ed altrui. Non si sa più distinguere il bene dal male, anzi talora si confonde platealmente il bene col male, trincerandosi dietro una stupida ingenuità che maschera una coscienza altalenante ed una dubbia moralità nel pensare e nell’agire. Questo è un rischio che spesso coinvolge i credenti e rende la vita trascinata e non vissuta, monotona ed assuefatta al piacere momentaneo ed illusorio, al “tutto e subito”. La scaltrezza del demonio può e deve essere bloccata da una coerenza sincera e dal proposito fermo di seguire il Signore con tutto il cuore, di temerLo e di cercare sempre il suo volto. Solo allora si gusta la sua clemenza e la grandezza della misericordia di Cristo che “non vuole condannare nessuno ma assolvere tutti” (S. Ambrogio). P. Angelo Sardone

La donna figlia, moglie e madre

249. «La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2,23).

L’indicazione biblica non è semplicemente l’atto di nascita ma anche la conferma dell’identità specifica della donna, la creatura messa da Dio accanto all’uomo, che racchiude in sé le peculiarità di dolcezza, fortezza, bellezza, eroismo, sacrificio, spiritualità. Dire donna significa dire “dono”. Nonostante che nell’antichità essa godeva di una condizione sociale bassa, destinata all’unica responsabilità della procreazione e dell’educazione dei figli, era sinonimo di fonte di vita ed era esaltato il suo ruolo di moglie e di madre. La Sacra Scrittura definisce la donna “aiuto simile all’uomo”: per questo egli lascia i suoi genitori per vivere con lei. La soggezione e dipendenza della donna dall’uomo erano concepite come maledizione. Una certa proclamata inferiorità era un deterioramento della condizione primitiva e genuina dell’umanità. Nella Bibbia un gruppo interessante di donne sono esaltate per la loro intelligenza, devozione, eroismo. Gesù ha nei loro confronti una posizione nuova, rivoluzionaria, con princìpi che si oppongono all’umiliazione sociale e giuridica propria dell’Oriente, ed all’eccessiva emancipazione a Roma. Conosceva la loro vita, le fatiche di ogni giorno, la loro premura. Alcune di esse lo accompagnarono fin sotto la croce: ad una apparve per prima dopo la sua risurrezione. Identità e ruolo della donna, figlia, sposa, madre, consacrata, sono oggi considerati in maniera diversa da un nuovo modo di vedere la creatura, la cui dignità è esaltante. “Dove non c’è donna, l’uomo geme randagio” (Sir 36,27). Auguri, donna, oggi e sempre. P. Angelo Sardone

Cosa fa l’invidia e la gelosia

246. «Che guadagno c’è a uccidere il nostro fratello e a coprire il suo sangue? È nostro fratello e nostra carne» (Gen 37,26-27). La storia di Israele passa attraverso vicissitudini che spesso trasformano il dramma in opportunità, la perdita in guadagno e provvidenza. I grandi Patriarchi sono protagonisti di situazioni che Dio permette e che fa volgere al bene, nonostante siano commiste ad elementi fortemente negativi. Il trasferimento del popolo eletto in Egitto è mediato sì da una terribile carestia che affliggeva la terra di Canaan, ma anche dalla presenza di Giuseppe, il penultimo figlio di Giacobbe che venduto dai fratelli agli Ismaeliti diretti in Egitto, qui aveva fatto fortuna divenendo un grande autorità. Il passo è comunque segnato da un evento delittuoso andato a buon fine per l’intelligenza, il senso pratico e la responsabilità morale di Ruben che aveva impedito la sorte tragica del suo vile assassinio. Il movente scatenante era una terribile avversione che i fratelli avevano per Giuseppe, certamente dotato da Dio di una capacità intellettiva superiore, oltre che di un affetto straordinario che godeva da parte dell’anziano padre, perché era il figlio avuto in vecchiaia. Per questo i fratelli lo odiavano e non gli parlavano amichevolmente. La gelosia e l’invidia fecero il resto. Volevano simulare una uccisione accidentale da parte di una bestia, ma la mediazione di uno di loro evitò l’abbandono dentro una cisterna vuota, destinato sicuramente alla morte di fame e sete. Quanto è terribile e diabolica l’invidia! È uno dei vizi capitali che miete vittime e talora è gestita anche dai buoni. Accontentarsi di quello che si ha e di quello che si è, aiuta sicuramente a vivere una vita più tranquilla. P. Angelo Sardone.

Gesù confido in Te

245. «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno» (Ger 17,5). È del tutto impressionante questa affermazione perentoria che proviene direttamente dalla bocca di Dio attraverso il profeta Geremia. Potrebbe sembrare sconvolgente una considerazione di questo genere che deve essere collocata in un contesto ben preciso. La durezza verbale riprende il primo dato che si riscontra nella cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre, quando il suolo della terra viene maledetto a causa dell’uomo, nel senso che verrà privato della ricchezza originaria e destinato a produrre cardi e spine. L’eccessiva sicurezza e la fiducia illimitata riposta nell’uomo e nella carne, cioè la parte debole, creaturale, in tutti gli aspetti fisici e morali, non va bene agli occhi di Dio. L’uomo rimane sempre e comunque un essere finito, non può mettersi a tu per tu con Dio, deve accettare il suo limite e deve reagire in maniera adeguata. La relazione che instaura con Dio è di dipendenza, dal momento che tutto viene da Lui. La relazione che instaura con l’uomo è sempre relativa, trattandosi di una creatura che, nonostante la sua intelligenza e le sue enormi capacità intellettive, volitive, creative, porta con se il limite derivante dal peccato e dal rifiuto di Dio. La stessa cosa dicasi per la carne, sinonimo di passione irresponsabile contro tutte le regole della natura e del buonsenso, quando eredita la potenza del peccato con i suoi desideri e le sue concupiscenze e produce opere cattive (Gal 5, 19), identificandosi in «carne di peccato» (Rom 8, 3). Dio è il solo vero sostegno. Alla maledizione, cioè il dire male, l’augurare male, non il male, si oppone la costante benedizione di Dio. P. Angelo Sardone

Il duro ostacolo al profeta

244. «Venite, ostacoliamolo quando parla, non badiamo a tutte le sue parole» (Ger 18,18). La vita e la missione dei profeti è stata sempre ostacolata dall’incomprensione e dal rifiuto del popolo. Anche nei momenti propizi, ogni loro parola era passata al vaglio ed era difficile che, soprattutto dinanzi a vistose evidenze di peccati e di rilievi morali e comportamentali segnalate da Dio, il popolo li accogliesse di buon grado. Per alcuni poi la sorte segnata era negativa e proporzionata all’investitura ricevuta da Dio col conferimento di un incarico poco esaltante e zeppo di responsabilità. A volte la loro vita era il paradigma di una situazione concreta storica ed esistenziale attraverso la quale il Signore delineava gli elementi della salvezza. Tra tutti i profeti si distingue particolarmente Geremia (650-587 a.C.), celebre per le sue lamentazioni, passate alla storia come “geremiadi”. Si tratta di interventi che potevano risuonare disfattisti, pessimisti quanto mai, testimonianza commovente di cenni biografici sparsi in tutto quanto il suo libro. La sua parola risuonava dura agli orecchi del popolo e non poteva essere diversamente perché era concreta e si proiettava in situazioni che puntualmente si verificarono come eventi storici. «Noi vogliamo seguire i nostri progetti», era una delle risposte ricorrenti dinanzi alle calamità paventate dalla Parola imposta da Dio. Gli attentati erano frequenti, uniti a tanti ostacoli posti non solo nella ricezione, ma anche nell’impedimento ad una predicazione accorata e mesta, di vera cura. La drammatica esperienza del profeta continua ancora oggi laddove con facilità si accoglie e si osanna il profeta accomodante e si rifiuta e si fa guerra a chi con coraggio proclama una parola ferma che induce al pentimento e che salva. P. Angelo Sardone  

Discutiamo col Signore

243. «Su, venite e discutiamo, dice il Signore» (Is 1,18). La preghiera del cuore è frutto di un incontro e di un duplice atteggiamento, quello di Dio, accogliente e benigno, quello dell’uomo, bisognoso e richiedente. La creatura si apre al Creatore con fiducia e piena coscienza delle proprie colpe. Il Redentore viene incontro al peccatore e lo invita a “discutere”, nel senso di mettere in piano le esigenze della sua vita, i desideri, le colpe ed accogliere dal confronto la giusta risposta e l’appagamento della sua richiesta. Tutto è noto a Dio: qualunque bisogno, qualunque esigenza, ma vuole che ogni cosa gliela chiediamo perché in questa maniera si manifesti ancor di più il suo amore che sovrasta ogni creatura e la colma di beni. Anche dinanzi alla situazione umana e personale del peccato, Dio dall’alto della sua misericordiosa giustizia, scende a patti, rilevando il pentimento sincero dell’uomo, frutto di una revisione adeguata e seria, e trasformando il dolore in gioia, la paura in serenità. Il suo chinarsi verso la creatura non è manifestazione di debolezza e di scontato accomodamento ma partecipazione sincera del suo amore che è benevolenza, comprensione, accoglienza a braccia aperte del peccatore pentito. Con Dio però non si scherza, nel senso che non ci si può prendere gioco di Lui, confondendo la sua misericordia con l’ingenuità. La sua Parola, i Sacramenti donati da Gesù Cristo, soprattutto nei tempi forti dell’anno liturgico sono indispensabili per entrare in contatto con Lui col cuore e la mente contriti ed assaporare nella ricchezza del suo perdono, la dolcezza della sua misericordia. P. Angelo Sardone