«Io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore» (Ez 37,12-13). Una scena macabra, quasi da fantascienza si apre davanti agli occhi del lettore del capitolo 37 di Ezechiele, il profeta che si fa interprete del Signore e del suo Spirito. È il celeberrimo capitolo delle “ossa aride”, una delle allegorie con le quali Jahwé intende ammaestrare il popolo d’Israele sull’efficacia del suo potere divino. Una pianura ben distesa è la tomba a cielo aperto di una grandissima quantità di ossa umane inaridite. Dio ingiunge ad Ezechiele di profetizzare e così dinanzi ai suoi occhi sorpresi, le ossa si alzano, si accostano l’una all’altra, si ricoprono di nervi, di carne e di pelle. Però Non c’è in loro ancora spirito di vita. Una ulteriore profezia invoca l’arrivo dai quattro venti dello Spirito che soffia sui cadaveri: improvvisamente essi rivivono; sono un esercito grande, sterminato. Le ossa inaridite sono il segno della speranza svanita e della fine che trova nel sepolcro l’ultima casa per il corpo ormai privo di vita. Solo lo Spirito di Dio può operare, e di fatto opera, il grande miracolo che in certo senso prelude ciò che avverrà alla fine del mondo quando il corpo si ricongiungerà con lo spirito. Uscire fuori dal sepolcro implica il ritorno alla fede matura e responsabile. L’aridità delle ossa non è data solo dalla fine della vita con la morte e la corruzione del corpo: si diventa aridi quando il proprio cuore è lontano da Dio e di conseguenza è lontano dagli altri ed anche da se stessi. Dio, solo per amore e pietà può intervenire e di fatto interviene, rimettendo nel cuore e nel corpo arido il suo spirito. Tutto torna a vivere. P. Angelo Sardone