La storia del seme che muore e dà vita

«Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore» (1Cor 15,36). La legge della natura, evocata dallo stesso Gesù Cristo, prevede che il seme gettato nel terreno non prende vita se non dopo la sua morte ed il suo disfacimento. E’ questo l’appiglio al quale si rifà S. Paolo presentando la spinosa questione della risurrezione dai morti ad una società ostica come quella greca che era assolutamente riluttante a qualsiasi riferimento alla risurrezione dei corpi. L’aveva sperimentato con grande delusione proprio ad Atene. La chiarezza espositiva dell’Apostolo è sorprendente: il corpo seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; quello seminato nella miseria, risorge nella gloria; il corpo seminato nella debolezza, risorge nella potenza; seminato come corpo animale, risorge corpo spirituale. Questo intervento è sollecitato da una diffusa forma di antropologia nella mentalità greca che attribuiva al corpo una funzione negativa nella espressione della persona e di conseguenza offuscava la spiritualità e la stessa immortalità. Paolo dà dimostrazione chiara di preparazione ricorrendo ad analogie tratte dal mondo della natura. Il cardine di tutto rimane l’onnipotenza creatrice di Dio le cui risorse sono inesauribili. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso principio: per vivere bisogna morire. Quante idee, testimonianze, azioni, per essere efficaci o essere ritenute tali devono passare attraverso il processo dell’umiliazione e della morte prima di assurgere a valori incontrastati e credibili. Purtroppo facilmente ci si scoraggia o a tutti i costi si tenta di far valere le proprie posizioni. Nell’uno e nell’altro caso, occorre essere prudenti e saggi sapendo attendere, e pazientare, come fa il contadino. P. Angelo Sardone