Il senso del digiuno

«Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati» (Is 58,1). Il capitolo 58 del profeta Isaia viene generalmente indicato come «oracolo del digiuno accetto a Dio». Contiene, infatti, prescrizioni divine emanate in forma perentoria, riguardo al senso ed all’efficacia del vero digiuno. Il compito di ricordarlo è affidato al profeta, con una sequenza incalzante e responsabile di verbi: gridare a squarciagola senza avere ritegno per alcuno perché tutti ascoltino; alzare la voce con l’intensità del suono del corno perché il richiamo sia espanso; dichiarare con coraggio e verità a tutto il popolo la situazione particolare dei suoi peccati e dei suoi delitti. Memori degli insegnamenti dei grandi profeti, le pratiche religiose devono essere compiute in maniera interiore. Tra questi in particolare il digiuno che la Legge prescriveva solo per la festa dell’espiazione. Più che una pratica ascetica era il segno del dolore collegato a lamenti nelle cerimonie di lutto, ma anche segno di penitenza e di implorazione della misericordia divina. In situazioni particolari di necessità o di eventi, esso accompagnava la preghiera. La sua durata era di un giorno, dall’alba al tramonto, ed era totale. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno nel mercoledì delle Ceneri e nel venerdì della Passione e Morte di Gesù Cristo, inquadrandolo in un vero e proprio «esercizio» di liberazione volontaria dai bisogni della vita terrena per riscoprire la bellezza e la necessità della vita che viene dal cielo. A noi sacerdoti, il compito di ricordarlo coi toni indicati dalla Parola di Dio e con la fermezza che salvaguarda la verità e la coerenza della fede. P. Angelo Sardone